La produzione postfordista mostra il carattere tutto della circolazione del salario, ne comprime la sua qualità prima ancora che la sua quantità. Rintracciare il senso del salario diventa complicato nella frammentazione dei caratteri del lavoro eppure ci permetterebbe meglio di definire la mappa del corpo del lavoro, di darvi carnalità e sangue. Il salario ha perduto centralità insieme al lavoro operaio. Le ideologie del salario trasudano economicismo: c’è chi ritiene accettabile che il salario diventi quanto più basso possibile per consentire sviluppo e competitività, dato che ridurre il costo del lavoro sembra sia la pietra filosofale della produzione, e c’è (sempre più raro) chi pensa al salario come “circolazione di denaro”, quindi alla sua spendibilità per la crescita dei consumi e, per questa via tutta classicamente keynesiana, considera il salario come molla della crescita produttiva in termini macroeconomici. In questo secondo versante possono iscriversi a pieno titolo una parte dei tardivi e maldestri sostenitori del “reddito garantito” nella sua versione “sociale” (dove la differenza tra il carattere antagonistico e quello “caritatevole” viene letto come mero ordine quantitativo, di entità della cifra, ripristinando un criterio di “equità del salario” che è, marxisticamente, un ossimoro).
Il garibaldinismo, tipico della sinistra estrema di questo Paese fa viaggiare militanti e curiosi per gli angoli depressi e repressi del mondo dove i corpi umani sono spesso straziati, fa muovere rapide le coscienze e firmare gli appelli contro situazioni dove la libertà è conculcata ferocemente e il controllo sociale è macroscopicamente soffocante, e ovviamente gode del detto e del conformismo per cui “non si può parlar male di Garibaldi”. E d’altra parte perché mai si dovrebbe parlarne male, soprattutto di un eroe che appunto era “dei due mondi”?
Eppure si trascura, nei rimasugli di attenzione che viene prestata all'”indigeno” sfruttamento della potenza di lavoro e di creazione sociale in questa parte di mondo, quanto nella tradizione materialista e strazio della vita operaia, sintesi e appalesamento delle contraddizioni di classe e di produzione universali, quanto è umore d’odio, per un verso, e calcolo di profitto dall’altro: il salario. II primato della razionalità economica e della forza di appagamento dei bisogni sociali in possesso della potenza tecnologica ha qui un inaspettato trionfo nella tacita negazione: solo le situazioni estremamente scandalose, no limits, fuori da ogni regola, possono far vibrare le coscienze ormai assopite di una maggioranza silenziosa e paciosa: il diritto alla vita del corpo sociale può essere evidente solo là dove viene esplicitamente rimosso: II salario perde così la sua dimensione vitale, corporea, scissoria, per posizionarsi all’interno della distribuzione generale della ricchezza: un fattore del prodotto nazionale lordo.
L’affabulazione sul salario
Così, la discussione, e prima ancora l’analisi delle trasformazioni del salario, la comprensione dei mutamenti intervenuti nella sua composizione e determinazione, come rispecchiamento dei mutamenti e della composizione dello scontro di classe, è divenuta esotica. La riflessione e le iniziative della sinistra europea, d’opposizione e di governo, sembrano prolifiche, benché in consistente ritardo e spesso deformate dalla gravità (nel senso proprio galileiano) sociale del problema dell’occupazione, riguardo alla questione del tempo di lavoro. Le tematiche del salario scendono in campo invece solo come surrogato di questa: ridurre il tempo di lavoro a parità di salario oppure proporzionare il salario in maniera diretta o relativa alla riduzione dell’orario.
Persino i referendum sindacali o giornalistici tra gli operai, tedeschi, inglesi o italiani o francesi, vertono su questa domanda: “quant’e la parte di salario che accetteresti di vedere diminuita lavorando di meno e aiutando cosi la crescita dell’occupazione o tentando di fermare la caduta tendenziale del saggio d’occupazione?” Ci si stupisce spesso poi, leggendo le risposte ai quesiti dei referendum, che l’egoismo operaio mostri indifferenza alle soluzioni d’ordine generale. interpretando questa indifferenza come una perdita di orientamento solidaristico e di ruolo egemone riguardo allo Stato e alla cosa pubblica, che avrebbe segnato invece gli anni Sessanta e Settanta. Sembra di capire, ohibò, che si rimprovera agli operai di non essere buoni come si pensava e ci si aspettava.
Le ideologie del salario trasudano economicismo: c’è chi ritiene accettabile che il salario diventi quanto più basso possibile per consentire sviluppo e competitività, dato che ridurre il costo del lavoro (che quando lo si menziona, viene sempre identificato con il salario) sembra sia la pietra filosofale della produzione, e c’è (sempre più raro) chi pensa al salario come “circolazione di denaro”, quindi alla sua spendibilità per la crescita dei consumi e, per questa via tutta classicamente keynesiana (ammodernata peggiorativamente vincolandola adesso al parametro dell’inflazione descritto sempre in agguato), considera il salario come molla della crescita produttiva in termini macroeconomici. In questo secondo versante possono iscriversi a pieno titolo una parte dei tardivi e maldestri sostenitori del “reddito garantito” nella sua versione “sociale” (dove la differenza tra il carattere antagonistico e quello “caritatevole” viene letto come mero ordine quantitativo, di entità della cifra, ripristinando un criterio di “equità del salario” che è, marxisticamente, un ossimoro).
Insomma, il criterio della compatibilità, che ci ha ossessionato in quest’ultimo ventennio a proposito del debito pubblico e della sua ripartizione tra le tasche collettive e individuali, sembra riversarsi pari pari sulla questione del salario. Il salario deve essere compatibile con lo sviluppo, deve essere controllato (nella vulgata monetarista il salario deve essere compatibile con il controllo della spesa pubblica, che è quanto di più lontano dall’idea classica di mercato si possa dire). Prima ancora, il salario deve essere sempre commensurabile. Forse è un segno dei tempi il fatto che entrambe le ideologie (salario come fattore di produzione o di circolazione) mostrino un aplomb riformista: non c’è eccesso di posizione, non c’è digrignar di denti, ma una trattativa continua del confabulare in cui si finisce con il perder memoria della materia del contendere. Il salario del lavoro è scivolato nell’affabulazione (come il ponte sullo Stretto di Messina, la variante di valico dell’autostrada del sole, il sottopasso dì Castel Sant’Angelo, la riforma della scuola, la staffetta Del Piero-Baggio).
Il materialismo del corpo operaio
In verità chi non pratica ideologie ma esprime con schiettezza la materialità dello scontro tutto politico è il padronato (si distinguono il patronato francese e italiano): la questione del salario è questione centrale di potere. Chi controlla la misura del salario controlla la misura del potere. Fa specie che una tale semplificazione, scandalosa come tutte le semplificazioni, non sia coscienza attiva e cattiva della sinistra estrema, e sia diventata invece luogo comune attivo e cattivo padronale, in un orribile rovesciamento degli anni Sessanta e Settanta, quelli in cui il salario era variabile indipendente piuttosto che compatibile. In questo senso è vero che la giocosa violenza con cui alle lotte della Fiat nel ’68-69 si chiedeva l’aumento salariale, la riduzione delle qualifiche, l’indennità uguale di trattamento si ripresenta oggi con i caratteri della tragedia e della farsa della rivincita del capitale. Gli interpreti, i soggetti attivi si mostrano adesso rovesciati come una carta dei tarocchi da interpretare al contrario.
Le lotte degli anni Sessanta e Settanta per la conquista di maggiore salario, quelle alla fine del boom economico, cioè di uno dei periodi di maggiore accumulazione primitiva di capitale vissuti da questo Paese, e quelle dentro la crisi petrolifera giocata contro il potere sociale, sono una scoperta dionisiaca del proprio corpo operaio, minaccioso e potenziale, umiliato e castigato nei suoi bisogni, nei suoi desideri, nei suoi umori, reso bestiale dalla produzione, museizzato e paralizzato dalla messianica ideologia socialista e dai compromessi di un riformismo che ha sempre rinunciato al suo principale requisito, la forza. Non sembri pericolosamente compiacente, ma le “spazzolate” contro crumiri, capetti e colletti bianchi nei reparti di fabbrica mi hanno sempre fatto pensare a carri di Tespi della modernità, a carnevali irriverenti, a esagerazioni dei gesti consueti del corpo dove il semel in anno licet insanire diventa invece abitudine quotidiana, uso della propria forza. Riscatto delle terribili condizioni che Engels aveva così dolorosamente descritto come infanzia perduta e offesa del proletariato. Abbattimento delle statue dei padroni alla Marzotto ma anche fusione delle statue di retorico bronzo socialista come segno di età adulta, fine dell’età giovane e ribelle.
Il singolo operaio, il singolo venditore della propria forza- lavoro, del proprio corpo da soma reso docile dallo scambio denaro-lavoro e domo alla macchina scopre nella lotta la fisicità politica della cooperazione produttiva, quanto sta prima del capitale e dopo il salario. L’odio, la sudorazione acre e leggera della lotta operaia disvela il rapporto di classe, quella forma specifica del controllo sociale assunta dal capitalismo che permette e configura lo scambio denaro-merce, che dà un valore al lavoro. E per quella via che lega e scioglie appunto la corporeità e la fisicità sociali (e la sua stessa autocoscienza) di un periodo storico alle sue forme di rappresentazione e di espressione estetica, la rottura e la liberazione dal naturalismo, dal verismo, dal neorealismo e, per finire, dallo zdanovismo come interpretazioni regnanti e lettura critica del “corpo operaio” accade proprio in quegli anni. La lingua operaia si scioglie dallo “stile operaio”, se ne libera. Il gesto operaio diventa meno carico di futuro e di passato, di memoria e di prefigurazione, e si attaglia e si allena invece al presente, alla tattica.
Il corpo operaio non ha uno “scopo”: esso non è produttivo tanto quanto non è ideologico. Il corpo operaio è materia, è materialista. L’espressione concreta della sua forza, come delle sue necessità e delle sue soddisfazioni, è la quantità di salario che riesce a strappare al profitto. Il salario è la materia reale del contendere, il campo gravitazionale dentro cui si attraggono in conflitto le astrazioni di lavoro e capitale. La lotta contro il salario è la politica operaia, almeno per quell’idea di politica che non è tecnica esperta, non sta nel cielo dell’amministrazione ma è bene pubblico, beni collettivi e quindi di ciascuno, benessere generale, cose per ciascuno. La lotta contro il salario è l’etica operaia, almeno per quell’idea d’etica che è insieme di comportamenti, abitudini, costumi, usi, “forma del vivere collettivo”, modi di vita. La lotta contro il salario è la premonizione della scienza operaia.
Il denaro operaio
Il salario non è certo tutto il rapporto di classe ma ne è la forma della coazione. Controllare direttamente il corpo operaio è possibile solo nell’inazione, nella sua destinazione al macero, al fumo dei comignoli del lager di Auschwitz. La produzione di capitale non può annichilire la classe; abbisogna invece di mobilitare e finalizzare all’erogazione di energia ma anche al consumo il corpo operaio, e il suo controllo può accadere nell’espressione più direttamente politica, il salario, non nelle quantità di pane e brodo distribuite sui calcoli di Mengele dei rapporti chili/calorie. L’espressione più concreta della forza del capitale è la riduzione del salario, la sua compressione, la sua aderenza eccessiva di misura rispetto al tempo di lavoro (è proprio rompendo l’indifferenza, e quindi l’aderenza, del rapporto salario/tempo di lavoro che si possono rendere reciprocamente variabili: a poco lavoro, molto salario).
L’espressione più concreta del controllo sul corpo operaio è la quantità del salario, la sua capacità di acquisto di tempo operaio e della libertà di disporne la combinazione. In quanto soggetto di lotta, l’operaio sociale (la combinazione sociale della forza-lavoro) si fa pagare, monetizza questa sua cooperazione. Il surplus di salario conquistato dalle lotte operaie (quell’impazzimento del costo del lavoro che problematizza gli economisti autarchici e legnosi) è una quantificazione in spiccioli di quella cooperazione, l’evidenza di averla sottratta al controllo.
Il denaro operaio (quello che è provento delle lotte, quello che porta il segno della cooperazione, del riconoscersi come altro dal capitale, cosa quindi affatto diversa dalla redistribuzione di reddito) produce consumo. Ma la classe sfugge al marketing, al controllo del mercato, alle pianificazioni di vendita: i suoi microaggregrati, le sue incrostazioni ideologiche ne sono oggetto, la famiglia operaia, la quotidiana vita operaia, il quartiere operaio, il dopolavoro operaio, l’operaio in quanto lavoro, in quanto nuda vita, mai in quanto classe. La qualità del consumo operaio, il senso di questo consumo porta i segni di questo doppio carattere della classe: per un verso è spinta alla circolazione, soddisfazione sensuale di bisogni, acquisizione di oggetti e delle relazioni di vita che quegli oggetti costruiscono o inducono; per l’altro è conquista, è riduzione del capitale a fattore secondario, è indifferenza alle leggi del valore-lavoro, è fungibilità del denaro e uso del superfluo, quanto non serve alla sussistenza e alla riproduzione. Finché le lotte tengono insieme questo doppio carattere si ha contemporaneamente l’allargamento della circolazione dei beni e un’incessante demolizione dell’inerzia capitalistica: riformismo operaio e potere operaio si intrecciano senza mai divenire socialdemocrazia.
La predicazione socialdemocratica
La predicazione si fa linguisticamente socialdemocratica con Berlinguer, assumendo tutti i caratteri del vocabolario cattolico, anti-pagano: “sobrietà”, “sacrificio”, “austerità”, sono termini che negano la prorompenza eccessiva del corpo operaio vissuta come corruzione, decadenza, deformazione. Il ruolo politico e storico della classe viene descritto attraverso aggettivi tutti direttamente corporali. La classe non deve essere più gramscianamente “egemone” nel senso ideologico, storico, culturale, politico ma castigata, frugale, temperante, parsimoniosa, astinente (sono questi i sinonimi per sobrio che usa il dizionario Tommaseo; come smodato, eccessivo, esagerato, sregolato, licenzioso sono i suoi contrari, abusati per giudicare i movimenti degli anni Settanta). L’autocontrollo di classe, quanto permette il passaggio dall’essere in sé all’essere per sé, dalla rivolta alla rivoluzione, si esercita linguisticamente alla fonte, nel sottacere il corpo. È con la sconfitta di classe degli anni Ottanta e Novanta che il salario perde quella doppia connotazione, economica e politica, quell’unicità di misura capace di sciabolare attraverso tutta la stratificazione sociale per divenire invece misura di quella sconfitta. Il salario come lotta politica non è mai stato indifferenziato: la spinta all’egualitarismo era un criterio politico non una equalizzazione economica. È con la sconfitta operaia e con il consolidarsi del postfordismo che il denaro operaio diventa fattore indifferente della circolazione e non più criterio.
Il salario ha perduto centralità
La produzione postfordista mostra il carattere tutto della circolazione del salario, ne comprime la sua qualità prima ancora che la sua quantità. Spezza questa qualità (il suo segno politico, il suo legame con la produzione) in un’estrema differenziazione interna: a lavoro autonomo, part-time, interinale, di cura, a contratto, a termine, servile, nero, a collaborazione ecc. corrispondono un salario autonomo, un salario part-time, un salario interinale, un salario di cura, un salario a contratto, un salario a termine, un salario servile, un salario nero, un salario a collaborazione ecc. Rintracciare il senso del salario diventa complicato in questa frammentazione dei caratteri del lavoro eppure ci permetterebbe meglio di definire la mappa del corpo del lavoro, di darvi carnalità e sangue. Il senso unico del salario, quell’essere descrizione dei rapporti di classe, s’è perduto nei rivoli della circolazione, dello scambio denaro-denaro, della potenza tecnologica, della frammentazione e individualizzazione e autonomia del lavoro. Il salario ha perduto centralità insieme al lavoro operaio. E il carattere politico dei rapporti di denaro preesistenti al lavoro viene tutto assunto dall’impresa. Anche da quella autonoma, che è impresa politica per eccellenza (in grado cioè, di esistere attraverso la rete delle relazioni sociali prima ancora che per la sua capacità economica e che ha come merce prioritaria un carattere sociale del suo lavoro). Il controllo del salario operaio avviene adesso attraverso il controllo della circolazione di denaro, attraverso la finanziarizzazione dei rapporti sociali. La coscienza politica del salario avviene a posteriori, nella sua spendibilità, nella sua capacità di acquisto e non, come accadeva prima, attraverso i caratteri espliciti del rapporto di classe. La coscienza politica del salario conduce al denaro ma non al capitale. Eppure, qui bisogna tornare.
Forse, è proprio il senso spurio della lotta di classe che s’è perduto: forse la sconfitta ha reso troppo pulito, troppo netto, troppo giusto il percorso di trasformazione, privo di compromessi, privo di carnalità, privo di contaminazioni materiali. I corpi della lotta, per sfuggire al controllo, sono diventati astratti, tutti proiettati nella perfezione di sé, nell’aderenza alla giustezza politica del fare, in una schizofrenia dove la vita quotidiana è abbandonata a se stessa perché vi trionfa il malessere e quindi l’alterità assume spesso i connotati dell’alienazione. Forse sarebbe opportuno approfondire una riflessione sull’opposizione al controllo della circolazione di denaro a partire da un’idea di salario politico e di politica del salario operaio come diritto alla vita contro la biopolitica del capitale.
Tratto da Derive Approdi 9 dicembre 1998