“Il Reddito di Base non è la soluzione a tutti i problemi di questa società, ma può mettere fine alla povertà da un punto di vista economico e può aiutare le persone ad avere più libertà per pianificare la propria vita, fare altre cose che non comportino necessariamente un lavoro sempre più precario e una vita condannata a mendicare, a elemosinare sussidi e contratti.”
Abbiamo parlato con Sergi Raventós del Programma Pilota per il Reddito di Base in Catalogna, che sta coordinando da settembre. Con un dottorato in sociologia e un diploma di assistente sociale, ha sviluppato il suo lavoro nel campo della salute mentale e dell’inserimento lavorativo ed è membro della Rete per il Reddito di Base.
Ancora oggi è molto difficile dissociare il Reddito di Base dalla povertà e dalla carità. Puoi aiutarci a chiarire le differenze tra Reddito di Base e reddito minimo?
È vero che in alcune comunità il termine Reddito di Base è ancora usato per definire le politiche di reddito condizionato per combattere la povertà estrema. Questi sono i cosiddetti redditi minimi di inserimento; ora si usano espressioni come reddito di cittadinanza. Sono tutti la stessa cosa, con criteri o condizioni di accesso diversi. Si tratta di assegnare un reddito di basso importo e con un gran numero di requisiti difficili da soddisfare.
In questo senso, il Reddito di Base è una proposta che vuole essere incondizionata, universale, di importo sufficiente, regolare (se possibile mensile), e che viene assegnato a chiunque risieda in un territorio.
Veniamo alla notizia: come siamo arrivati al Programma Pilota del Reddito di Base in Catalogna, che tu coordinerai?
Come risultato di tutti i movimenti in diverse parti del mondo, anche qui in Catalogna ci sono state diverse manifestazioni durante la pandemia che hanno contribuito a far sì che la CUP (Candidatura di Unità Popolare, partito politico catalano anticapitalista, N.d.T.) includesse il Reddito di Base nel suo programma elettorale.
La CUP ha un ruolo importante nella formazione del governo qui in Catalogna e ha posto come condizione l’elaborazione di un programma pilota. Esquerra Republicana (partito catalano indipendentista, N.d.T.), che detiene la presidenza, ha dato il via libera. Questo ha portato alla creazione dell’Ufficio di cui sono responsabile.
È chiaro quindi che è una questione di volontà politica…
Proprio così.
In cosa consiste il Programma Pilota e come sarà attuato?
Vogliamo disegnare un piano che sia il più fedele possibile a ciò che intendiamo per Reddito di Base Universale e Incondizionato, con un importo equivalente alla soglia di povertà, che in Catalogna è di circa 900 euro mensili e con un campione il più ampio possibile. In seguito a conversazioni con alcuni esperti stiamo pensando a 5.000 persone di varie comunità. L’idea sarebbe quella di pensare a qualche località, un paese o anche il quartiere di una città. Sarà implementato in due anni. Un’altra cosa è il tempo necessario per progettarlo. Stiamo pensando di lanciarlo nel dicembre 2022 per due anni. Dopo di che ci sarà un periodo di analisi, valutazioni, estrazione di dati, ecc. Sarà finanziato dal bilancio della Generalitat; non abbiamo la capacità di fare una riforma fiscale. Si tratta di un piano abbastanza ambizioso rispetto ad altri che sono stati attuati negli ultimi anni.
Per quanto riguarda gli indicatori che misurerete…
Nei programmi che abbiamo esaminato, abbiamo riscontrato delle differenze. In alcuni di essi non si tratta di individui isolati e in altri le persone che ne hanno beneficiato non si conoscono tra loro.
Dobbiamo analizzare i cambiamenti individuali, per esempio il miglioramento della salute mentale che è stato osservato nella maggior parte dei casi e i cambiamenti nei loro progetti di vita: le persone possono dedicare più tempo alla cura dei bambini, investire in formazione o unirsi ad altri per fare progetti, fondare imprese o iniziative di cooperazione…
Tuttavia, i cambiamenti a livello di comunità sono stati meglio osservati in alcuni esperimenti come quelli in India o in Namibia, dove il Reddito di Base è stato concesso a interi villaggi.
Persone come Guy Standing (economista britannico, N.d.T.) ci hanno fatto capire che sarebbe interessante prendere in considerazione questo fattore nel contesto di un paese, o di una regione come la Catalogna. Crediamo che questo non sia ancora stato fatto.
C’è tuttavia il precedente della municipalità di Dauphin in Canada negli anni ’70. Lì abbiamo trovato dati interessanti in questo senso, nonostante le differenze, perché si trattava di un complemento di reddito. Ma siamo stati in grado di vedere importanti cambiamenti in quella popolazione, grazie alla ricerca di Evelyn Forget (economista canadese, N.d.T.).
Cercheremo di attuare tutto questo qui in Catalogna. Prima dobbiamo selezionare delle località più rappresentative possibile della popolazione residente. Dobbiamo tener conto delle limitazioni da mettere sul tavolo. In questo dobbiamo essere onesti, giacché un programma pilota parte già da una serie di limitazioni. Una di queste è che non ci sarà una riforma fiscale, non ci sarà una redistribuzione della ricchezza, non vedremo una riduzione delle disuguaglianze sociali e una redistribuzione del reddito tra le persone più bisognose.
In che tipo di località pensate di implementare il programma?
Vorremmo che fossero più rappresentative possibili dal punto di vista sociale ed economico qui in Catalogna. Un territorio con un tessuto industriale, un altro nel settore agricolo, un altro ancora con più servizi o turismo, un quartiere più urbano… per vedere i diversi cambiamenti che avvengono in aree molto diverse tra loro quando si assegna un beneficio universale e incondizionato a tutta una popolazione, quando si garantisce la sussistenza materiale delle persone.
E questo è molto suggestivo fin dall’inizio. Vedere quali cambiamenti si possono produrre a livello di comunità, abitudini di coesione sociale, partecipazione a progetti, vedere come le persone possono raggrupparsi per fare certe cose; quali cambiamenti si possono apportare in termini di educazione e di assistenza agli anziani o ai bambini. Insomma, tutte queste dinamiche che possono essere molto interessanti e che, a differenza di quello che stiamo osservando attualmente con le persone che ricevono benefici condizionati, non si limitano a uscire dalla povertà. Alcune persone non sono in grado di integrare il Reddito di Base con qualche tipo di occupazione perché sono benefici incompatibili.
Avete intenzione di introdurre una sorta di “filtro” per facilitare le analisi delle conclusioni di cui parli?
Vogliamo essere in grado di vedere cosa succede se prendiamo un certo territorio e tutti vengono pagati, oppure iniziare a guardare quali persone in quel territorio hanno un reddito più alto e chiederci: “Vogliamo dare il reddito anche a loro o risparmiarlo per poterlo destinare a un numero maggiore di persone?” Perché se vogliamo replicare il modello di finanziamento stabilito per esempio da Jordi Arcarons, Lluis Torrens e Daniel Raventós, in cui il 20% più ricco ci perderebbe rispetto al restante 80%, non potremmo applicarlo così com’è.
Questo ci riporta al tema del finanziamento del programma. Puoi spiegarlo meglio?
Essendo noi una comunità autonoma, non abbiamo la possibilità di fare una riforma fiscale. Non ce lo permettono, dovremmo essere indipendenti, avere un nostro Stato, ma non abbiamo un Ministero delle Finanze. Questo ci impedisce di fare modifiche fiscali in modo che i più ricchi paghino il Reddito di Base.
Quindi abbiamo due opzioni: o lo diamo a tutti e i ricchi ricevono ancora più soldi di quelli che hanno già, o vediamo chi è il 20% più ricco di questa comunità e non gli assegniamo il Reddito di Base. Questa è una possibilità. Non sto dicendo che è quello che faremo, è una possibilità che è sul tavolo al momento. Non è per porre condizioni alle persone, ma per valutare se giocare o meno questa carta.
Da qui vedremo quali altri problemi possono sorgere. Per esempio, cosa succederà alle persone che attualmente ricevono il Reddito Garantito di Cittadinanza in Catalogna? Cosa succederà a queste persone se gli diamo dei soldi? Il sistema attuale impedisce loro di ricevere più entrate rispetto al reddito garantito, dunque cosa facciamo in questo caso? Dovremo negoziare con il Dipartimento che assegna questi aiuti e vedere come evitare che queste persone vengano danneggiate. Stiamo parlando di un esperimento, non è il Reddito di Base applicato nel mondo futuro che vorremmo. Stiamo parlando di un esperimento con tutte le limitazioni legali, le controresponsabilità giuridiche e tutte quelle storie che potrebbero creare problemi. Dovremo inoltre verificare chi è registrato nel Comune in questione, se ci sono persone rimaste fuori, persone in situazione irregolare… Dobbiamo anche studiare tutte queste situazioni sul territorio.
Sappiamo che lavorerai con un team multidisciplinare. Quali sono le sue caratteristiche?
Sono persone con profili molto vari, provenienti da diverse discipline. Avremo persone dal campo legale, sociologico, economico, analisti di dati, persone che si occuperanno della comunicazione nel programma. Questo è uno degli aspetti che consideriamo fondamentale, perché durante tutto questo tempo dovremo cercare di spiegare cos’è il Reddito di Base, diffonderlo, spiegare in cosa consisterà il progetto. E tutto questo comporterà un compito di comunicazione molto importante. Inoltre, avremo anche esperti che hanno partecipato al progetto B-Mincome a Barcellona.
Parliamo del rapporto tra precarietà e malattia mentale, un campo in cui sei uno specialista e che è diventato molto più evidente con la pandemia
Penso che la pandemia abbia mostrato degli aspetti fondamentali. Il primo è poter avere una sicurezza economica per affrontare situazioni che nascono per esempio in una situazione pandemica come quella che abbiamo vissuto e in cui si può rimanere senza nulla da un giorno all’altro. È una situazione molto grave che ha colpito tanti e che ha chiaramente influito sulla salute mentale: non sapere cosa succederà, se perderai il tuo lavoro, se perderai quel poco che hai. Non poter avere un reddito a causa del lockdown. Non poter uscire per strada, non poter vendere i tuoi prodotti… Per tutte le persone che hanno lavori ambulanti è stato tremendo.
E poi ci sono tutte le situazioni di precarietà che ci trasciniamo dietro, di lavori saltuari, di situazioni che precipitano di crisi in crisi… Molte persone non si erano ancora riprese dall’ultima del 2008 e abbiamo subìto una nuova crisi molto forte, a un livello diverso, con la dimostrazione che il loro lavoro è instabile, precario, con contratti temporanei, che non possono intraprendere progetti, che non possono iniziare una vita lontana dai genitori. Molti giovani hanno contratti temporanei e vivono nella precarietà.
Ci sono molte situazioni che sono difficili da riassumere qui, ma è vero che ampie fasce della popolazione sono state colpite: i giovani, le donne che hanno dovuto fare il triplo turno, il telelavoro da svolgere in case di pochi metri quadrati, la necessità di combinare l’occupazione con il lavoro domestico, che è ricaduto soprattutto sulle donne. E poi gli operatori sanitari, che hanno dovuto affrontare orari di lavoro molto lunghi (secondo alcuni rapporti sono il gruppo più colpito mentalmente) … tutto questo si fa sentire.
Se consideriamo che la maggior parte delle persone con un disturbo diagnosticato o non diagnosticato aveva già un lavoro molto precario e aggiungiamo la crisi delle dimensioni che abbiamo vissuto, ci troviamo con indicatori di salute mentale peggiori: più problemi di ansia, dipendenze, depressione, consumo di ansiolitici, tentativi di suicidio, ecc. Tutti questi indicatori preoccupano molto le istituzioni, ma finalmente c’è un tentativo di mettere a disposizione più soldi per la salute mentale e per aumentare i psicologi. Ma questi sono dei cerotti, perché non si tratta di prevenzione. Noi che lavoriamo nel campo della salute mentale capiamo l’importanza degli aspetti sociali della salute e la necessità di introdurre certi fattori per prevenire queste situazioni. Uno di questi è un reddito garantito che permetta di avere una rete di protezione in caso di situazioni pandemiche. Purtroppo questa non sarà l’ultima che subiremo.
Una domanda più personale: perché ti dedichi a tutto questo?
Sono impegnato nella questione del Reddito di Base dalle origini di questo movimento e inoltre mi sono preoccupato fin da giovane delle questioni sociali, della disuguaglianza tra ricchi e poveri e di come il mondo in cui viviamo sia mal strutturato, mal progettato. In questo senso, il Reddito di Base ha cominciato a essere considerato una proposta che poteva fornire una soluzione a una serie di problemi. Naturalmente è lontano dall’essere una soluzione per tutto. Ci sono problemi di natura ambientale, di natura femminista, le leggi per gli stranieri… ci sono tante cose che vanno oltre il Reddito di Base. Non è la soluzione a tutti i problemi di questa società, ma può mettere fine alla povertà da un punto di vista economico e può aiutare le persone ad avere più libertà per pianificare la propria vita, fare altre cose che non comportino necessariamente un lavoro sempre più precario e una vita condannata a mendicare, a elemosinare sussidi e contratti. Analizzata da molti punti di vista – filosofico, politico, sociale – è una proposta molto suggestiva che può fornire delle soluzioni.
Vuoi aggiungere qualcosa per concludere?
È vero che abbiamo fatto progressi con l’idea – la raccolta di firme a livello europeo, la proposta di un’Iniziativa di Legge Popolare nei Paesi Baschi, questa esperienza pilota – ma non siamo ancora riusciti a mettere fine alla povertà. E questo deve costringerci a ripensare al fatto che i redditi condizionati non sono una soluzione ai problemi di precarietà e povertà. Dobbiamo quindi fare un passo in avanti e questo passo è la proposta interessante del Reddito di Base.