Il futuro è arrivato. Solo che non è equamente distribuito.
William Gibson
Lo scandalo che ha coinvolto Facebook sulla questione dell’uso dei dati di Cambridge Analityca, ha aperto scenari nuovi nel mondo della rete e dell’innovazione tecnologica. In particolare ci si è soffermati molto sulla questione della privacy degli utenti, ma forse meno sull’enorme guadagno che si produce con la gestione dei dati e delle informazioni che si generano nell’uso della rete. Intorno a questa vicenda che ha riempito le cronache di tutto il mondo, si è creato un certo sensazionalismo, come se effettivamente nessuno sapesse. Ma di fatto, ognuno di noi nel momento in cui scarica una App sul proprio telefono cellulare (pur facendolo gratuitamente) dà la disponibilità ad accedere a tutti i contenuti dello stesso. Dai contatti del telefono e delle mail, alle fotografie, ai video, ai dati sensibili.
Che i profili di ciascuno vengano venduti “illegalmente” per orientare la politica planetaria giacché venivano già ceduti “lecitamente” per i motivi più banali come le indagini di mercato, le schedature politiche degli attivisti politici o altro, è una cosa piuttosto nota. Ma la questione della privacy è appunto solo un pezzo della faccenda. E quando qualcuno sa su di noi tutte queste cose ha una mole di informazioni pregiate che valgono tanto. Sanno con precisione i nostri orientamenti politici, religiosi, sessuali, conoscono i nostri acquisti, tendenze musicali, hobby, che squadra tifiamo, che film ci piacciono, assieme alle relazioni che ci legano a parenti, amici, colleghi, familiari, partner vecchi e nuovi. Grazie proprio all’indirizzamento personalizzato delle pubblicità e del marketing online in base ai dati degli utenti posseduti e sfruttati a fini commerciali, Google, per esempio, fa oltre il 90% del proprio fatturato con la pubblicità online e ne ha il monopolio (assieme a Facebook). Un settore questo che oggi rappresenta il grosso del mercato pubblicitario mondiale. E come ha costruito questa posizione? Dati raccolti tramite le nostre navigazioni online, le ricerche sull’omonimo motore, il tracciamento attraverso i telefonini con sistema Android, gli account Gmail, le nostre fotografie postate sul nostro profilo Facebook etc. Non a caso, proprio durante lo scandalo Cambridge Analytics che ha coinvolto Facebook, le perdite in borsa, quindi da un punto di vista “economico”, per Zuckemberg sono state notevoli.
L’economia dei dati, o del digitale, ormai dunque ha un vero e proprio mercato ufficiale tanto che si sono andati realizzando una serie di “servizi” necessari proprio alla raccolta ed alla gestione di questa “ricchezza”. Le forme con cui vengono “lavorate” queste informazioni vanno dalla produzione alla raccolta, all’aggregazione dei dati fino all’analisi approfondita degli stessi. Ormai sono diverse le società che si occupano di tutto ciò. Dalla fotografia del proprio gattino postata “liberamente” sui social media fino al noleggio delle biciclette in giro per le città, la quantità di dati, diversificati, immensi, non lascia vuoto alcuno spazio delle attività umane. A proposito di bike sharing, secondo alcuni, la cessione delle biciclette in quanto tali è un business in perdita (viste le tariffe assai ridotte del servizio offerto), ma quello che interessa di più non sono i pochi euro l’ora del noleggio, quanto proprio i dati prodotti dai clienti. Mobike e Ofobike, società cinesi del bike sharing, raccolgono continuamente dati dei loro “clienti” (1). Dietro queste società vi è ad esempio Alibaba e le sue finanziarie. Per un gigante dell’ e-commerce come Alibaba, la raccolta dei dati sulle abitudini e le capacità di spesa, di shopping, di mobilità etc. sono il vero finanziamento di queste operazioni che ufficialmente trattano biciclette per la mobilità urbana(2). I dati dunque acquisiscono un ruolo fondamentale per la nuova rivoluzione tecnologica. L’Intelligenza Artificiale (AI) e le nuove tecnologie della robotica stanno imponendo nuove trasformazioni al mondo del lavoro e dei consumi. Diversi studi internazionali preconizzano un aumento della disoccupazione in diversi settori produttivi e una nuova radicale trasformazione nella produzione e nell’organizzazione del lavoro. In questa nuova rivoluzione e in questa nuova forma di accumulazione capitalistica, va identificato anche il ruolo che svolgono le informazioni necessarie proprio ad alimentare l’intelligenza artificiale, la robotica, a movimentare i consumi, a costituire assi importanti per la creazione di nuove imprese etc. A tal proposito, pensiamo solamente a cosa accadeva verso i primi anni del 2000, quando a partire dagli elenchi telefonici (libroni pieni di dati, con nome, cognome, indirizzo, telefono ed a volte anche posizione lavorativa di milioni di persone), si raccoglievano dati che venivano riorganizzati e venduti alle società di telemarketing. Con l’arrivo della rete mondiale, internet, e di tutto ciò che riguarda le telecomunicazioni del mobile, ormai il reperimento quotidiano di dati raggiunge una quantità di informazioni quasi infinita e di ogni genere. Secondo alcuni, solo in Italia, il “controllo”, o comunque il mercato di questi dati nel 2016 sfiorava il valore di 4,6 miliardi di euro e secondo altri, entro i prossimi anni supererà quota 6,3 miliardi. Un valore, quello italiano, che è dietro ad Inghilterra (17,7 miliardi) e 16 miliardi la Germania (3). Anche se alcuni prevedono un certo calo dell’accelerazione data dall’AI (in particolare visto che questo è ancora un settore molto impegnativo dal punto di vista dell’innovazione e del capitale da investire), rimane il fatto che vi sarà un aumento delle aziende che si dedicheranno a queste nuove tecnologie ed in particolare nella raccolta e gestione dei big data (4). Secondo gli analisti, il mercato globale delle ICT, il fatturato dei Big Data ed i servizi di analisi abilitati a livello mondiale è stato nel 2016 pari a 130,6 miliardi di dollari con una previsione di crescita fino a 203 miliardi per il 2020 (5). Ma la raccolta dei dati riguarda tutto, non solo consumi o abitudini.
La General Electric, ad esempio, ha speso oltre un miliardo di dollari nel 2016 per raccogliere dati provenienti dai sensori inseriti nelle turbine a gas o nei motori a reazione e negli oleodotti. Ai dati dunque sono interessate soprattutto le grandi aziende, ma ormai anche le piccole e medie si muovono su questo nuovo assett. Secondo alcune fonti, i dati molto specifici hanno un prezzo molto accessabile. Sembra che acquistare online 10mila indirizzi e-mail contenenti alcuni parametri personali (età, sesso, i libri letti, le automobili preferite e gli sport seguiti) costi in totale poco meno di 200 dollari (6). L’investimento dunque che si prospetterà nei prossimi anni, sulla raccolta e la gestione dei dati, sarà notevole. Il settore bancario (oggi è il primo investitore in business analytics) continuerà su questa strada con maggiori investimenti. Così come altre aziende si impegneranno nell’implementazione di servizi innovativi, come ad esempio nei bot conversazionali in grado di rispondere all’utente.
Il grande mercato dei Big Data camminerà, dunque, congiuntamente allo sviluppo dell’AI. Sarà un circolo virtuoso che si andrà implementando sempre di più. Pensiamo ai dati prodotti con l’internet delle cose, quelli che sarà possibile acquisire con le auto a guida autonoma o semplicemente con il parcheggio assistito o nella domotica. Più dati verranno raccolti, più l’AI sarà in grado di fornire nuove funzioni riconfigurando e aggiustando esattamente quelle apprese fino a quel momento. Oggi la raccolta dei dati è gestita, in particolar modo, da algoritmi che catalogano le informazioni e le strutturano. E il primo luogo di raccolta di questi dati è la navigazione online. Grazie al comportamento di ogni utente, si è in grado di agganciare l’indirizzo IP, seguire le abitudini, le affinità, gli hobby, gli interessi etcetc. Il futuro del marketing, secondo un white paper realizzato da HP (7), “verrà modellato sulla combinazione di analisi e studio delle informazioni che arrivano dai social media, blog, forum, chatroom, fonti inesauribili di informazioni da usare sia come nuovi canali di marketing, sia come stimolo per approfondire il comportamento degli utenti”.
Nel 2018, secondo i risultati di uno studio realizzato dall’Osservatorio Big Data Analytics & Business Intelligence della School Management del Politecnico di Milano (8), si è registrato un notevole aumento delle società italiane che si sono dotate di modelli di governance dei dati. Il mercato del Big Data Analytics continua a crescere a ritmi serrati, superiori al 25% annuo. Crescono iniziative fast data, con l’analisi dei dati in tempo reale e molte stanno sperimentando un’evoluzione verso logiche di predictive, prescriptive e automated analytics. L’evoluzione passa attraverso tecniche di Machine Learning e Deep Learning, che abilitano nuove tipologie di analisi, e di Real-time Analytics (9). Pensate a che mole di dati saranno disponibili, ad esempio, a partire dall’obbligo della fatturazione digitale nel nostro paese. Secondo una ricerca dell’ufficio studi di Confartaginato Lapam, solo nel territorio di Modena e Reggio Emilia, saranno oltre 14,3 milioni le fatture elettroniche emesse solo nel 2019 (10).
Ma dunque, a fronte di questo smisurato vortice di valore, potremmo arguire che Facebook, o i giganti della rete, dovrebbero pagarci per aver postato la nostra foto al mare, o il nostro gatto? You tube dovrebbe darci un salario per l’ultimo video pubblicato o per averlo visitato decine di volte e ripostato su altri social o nelle chat tipo whatsapp? La riflessione sulla produzione di valore nell’epoca contemporanea, a partire dall’uso dei dati, della sua accumulazione, ha sicuramente piena legittimità nella questione dei Big Data e dell’uso che se ne fa. I dati sono il nuovo petrolio, forse, ma sono anche e soprattutto lavoro. All’inizio del terzo millennio, il valore-lavoro sembra dunque lasciare spazio al valore-vita. La riproduzione sociale diventa direttamente produttiva, il tempo libero, così come le libere relazioni umane, vengono inseriti all’interno di dispositivi che, grazie alle tecnologie algoritmiche, consentono estrazione di plus-valore. Oggi chi domina le tecnologie, i dati, le idee che navigano in rete, è un estrattore di valore, chi usa la rete, anche il più liberamente possibile, è di fatto in produzione. Producendo informazioni gratuite genera ricchezza. Lavora senza essere riconosciuto come produttore.
Ogni giorno vi sono oltre 1,4 miliardi di persone che utilizzano Facebook (11) con un ricavo medio per utente di oltre 6 dollari, con un profitto nel 2017 di 4,26 miliardi di dollari. Come è noto, Mark Zuckerberg, il fondatore di Facebook, nel 2014 ha acquistato per 14 miliardi di dollari la piattaforma di chat su mobile (ed ora anche su pc) Whats App (12). Questa fusione ha portato altri 1,5 miliardi di utenti che ogni mese utilizzano questa tecnologia sul proprio cellulare. D’altronde perché “spendere” così tanti soldi per una semplice applicazione di messaggistica telefonica? Se non per il fatto che lo scambio di informazioni tra gli utenti genera di per sé un ritorno economico indiretto?
Dunque l’idea di pagare gli utilizzatori di tecnologie, per il fatto stesso di rendere “popolate” le piattaforme, non è poi così peregrina. Sarebbe quantomeno un riconoscimento di quella produzione informale che quotidianamente miliardi di persone, sui più svariati strumenti tecnologici, offrono gratuitamente ai giganti della rete (e non solo). I giganti tecnologici, che offrono servizi online gratuiti, dai quali raccolgono i dati, dovrebbero pagare per ogni pepita di informazioni che raccolgono? I cosidetti prosumers (produttori\consumatori) che popolano la rete dovrebbero essere dunque pagati per il loro lavoro?
Secondo una stima di Weyl e Posner contenuta in Radical Markets (Princeton University Press, 2018), se le società di grandi dimensioni acconsentissero a cedere i 2/3 dei loro profitti agli utenti creatori di dati che rendono possibile lo sviluppo dell’Intelligenza Artificiale, una famiglia media di quattro persone “guadagnerebbe” 20.000 dollari l’anno.
Se queste aziende guidate dall’intelligenza artificiale rappresentano il futuro dell’economia, è necessario accostarsi alla rivoluzione che esse rappresentano, rivendicando meno tempo di lavoro e una nuova idea di welfare a partire da un reddito di base incondizionato come riconoscimento del valore generato dalla produzione sociale oltre il lavoro? Se l’utente, di fatto, cede gratuitamente i propri contenuti con mezzi che egli ha acquistato per sé, con mezzi di produzione propri (personal computer, portatili, tablet, dispositivi mobili, etc) forse dovremmo costruire delle parole chiave, delle provocazioni che comincino a descrivere questa sorta di enorme “fabbrica digitale” in cui al centro del processo lavorativo vi è proprio quel prosumer costantemente connesso e che non conosce ferie né orari di lavoro. Il tema che qui si pone non è tanto la questione dei Big Data, necessari a far progredire le nuovi rivoluzioni tecnologiche che potrebbero portare ad esiti molto positivi (dalle cure, alle smart city, alla fine dei lavori usuranti grazie alla robotica etc.), ma appunto il dominio sulle nuove tecnologie e l’enorme profitto che ne scaturisce. Non sarebbe dunque opportuno pretendere che le imprese dei Big Data, attraverso forme di tassazione modernizzate, siano coinvolte per prime nel garantire il sostegno economico necessario a riconoscere l’importanza di questo “lavorio diffuso”, oltre il lavoro formale? I miliardi di utenti di Facebook sono la più grande forza lavoro non retribuita della storia. Se non ci riconosciamo soltanto come consumatori, ma anche almeno in parte come produttori, sarà necessario dunque costruire parole chiave e azioni concrete per segnare questo nuovo cambio di passo.
Si potrebbe partire da una semplice provocazione: quella di lanciare un primo sciopero mondiale degli utenti della rete. Si potrebbe iniziare abbandonando per un intero giorno uno dei social media più noti, proprio Facebook, dicendo con chiarezza che “utilizzeremo soltanto quei social network che ci pagheranno un reddito di base per il solo fatto di esserci iscritti come quota della ricchezza prodotta”. Questo non solo renderebbe visibile una rivendicazione come il reddito di base, ma forse segnerebbe, in maniera pragmatica, quale peso ha l’utente di un social media nel determinarne l’appetibilità e il successo. Pensate in quella giornata che crollo avrebbe, nella raccolta di informazioni, un social come Facebook. Sarebbe calcolabile sia in termini di Big Data, che di profitti non realizzati. D’altronde se anche Mark Zuckerberg si dichiara sostenitore di un reddito di base (13), forse potrebbe accettare la proposta che chiunque si iscriva alla sua piattaforma usufruisca di un pezzo del suo enorme profitto? Potrebbe accadere che altre aziende, con diversi business, si uniscano alla “mischia” promuovendo un “benefit” economico affinché ci si iscriva anche alla loro di piattaforma! A parte la provocazione cosi descritta (e tutto sommato intrigante), è evidente che il tema che si pone è centrale. Lo scontro, anche geopolitico tra superpotenze come Cina e Stati Uniti, ad esempio, per il dominio sull’ingresso della tecnologica 5G, dimostra tutta l’importanza del ruolo e del controllo sulle tecnologie. Lo scontro in atto è violentissimo, il dominio sulle tecnologie è iniziato ormai da un bel pò, gli attori in campo sono agguerriti, i miliardi scorrono a fiumi. E’ necessario, in qualche modo, entrare “in sintonia” con quanto sta accadendo e cominciare a domandarsi che tipo di rivoluzione è in atto, quale è la portata dello scontro, quali le forme di questa accumulazione iniziata ormai da qualche decennio e che si protrarrà in maniera sempre più evidente nei prossimi anni. Ed è giunto il momento anche comprendere quale ruolo possono avere i cittadini, i produttori\consumatori. Tutti noi in sostanza.
La questione tecnologica non può rimanere appannaggio delle companies e delle multinazionali, dei venture capitalist, della silicon valley o, se ci dice bene, di qualche hacker illuminato. C’è bisogno come non mai di una presa di parola di tutti i partecipanti a questa trasformazione cosi radicale e che coinvolge miliardi di esseri umani.
Insomma, la questione delle tecnologie dovrebbe richiedere un passo in avanti tanto delle analisi sociali, economiche, del lavoro quanto delle iniziative politiche da mettere in campo. In fondo, anche il compianto Stefano Rodotà già ai tempi poneva il tema dei diritti della rete individuando ad esempio l’accesso alla tecnologia come l’accesso ad un bene comune individuando la necessità di una Carta dei diritti della rete (14).
Dunque cominciare a far di conto, di quanto effettivamente il nostro essere connessi, di quanto un nostro semplice post possa produrre valore, e dunque quale azioni si possono individuare per rivendicare la nostra quota di ricchezza prodotta, potrebbe aprire nuovi scenari. Individuare una sorta di Manifesto del WebFare potrebbe delineare una nuova presa di parola per arrivare a rivendicare un reddito di base incondizionato per il nostro essere connessi alla rete, usando delle App da mobile o per il semplice fatto di avere un account mail come dichiarazione di uso della rete e dunque essere per questo pagati. Un sistema di WebFare sarebbe caratterizzato da ben precisi diritti, come la connessione alla rete gratuita o l’uso gratuito delle tecnologie, ma anche una nuova idea dell’uso dei dati (iniziando col rimettere in discussione il “furto legalizzato dei dati” in quanto proprietà privata delle società tecnologiche) come ricchezza socialmente prodotta per migliorare la vita di tutti.
Certo lo sciopero della rete e la rivendicazione del reddito di base incondizionato da parte degli scioperanti, potrebbero essere letti solo come un’azione “pop”, ma diverrebbero anche un primo confronto serrato con le big company tecnologiche, per il riconoscimento di una produzione non riconosciuta. Una fuoriuscita in massa dalle piattaforme digitali e dalla rete dei dispositivi mobili, uno sciopero generale della rete potrebbe forse rendere ancora più chiaro il valore che la vita associata on line produce. Ma renderebbe altrettanto evidente il mancato ruolo che svolge la politica, i ritardi legislativi, quelli fiscali, normativi e via discorrendo, mettendo in evidenza un punto di vista nuovo, una nuova dialettica, in un mondo attraversato da queste enormi trasformazioni.
Note:
1) “Analyst: Mobike needs Big Data to keep wheels turning”, News China, 27 September 2018
2) “What’s Really Driving China’s $1 Billion Bike-Sharing Boom?”, Forbes, 20 June 2017”
3) “Big Data e algoritmi: l’economia digitale vale già 4,7 miliardi”, Il Sole 24 ore, 23 gennaio 2018.
4) “I robot-minatori dei big data”, Il Sole 24 ore, 4 dicembre 2017
5) Ibidem
6) “Big Data e algoritmi: l’economia digitale vale già 4,7 miliardi”, Il Sole 24 ore, 23 gennaio 2018.
7) “Come migliorare la suplly chain e la costumer experience con il cognitive computing”, HP white paper, 2013
8) https://www.osservatori.net/it_it/osservatori/big-data-analytics-business-intelligence
9) “Il mercato dei Big Data in Italia”, Rai Cultura Economia, 2018
10) “Come i Big Data cambiano l’economia: a Modena e Reggio Emilia una fattura ogni 2 secondi”, Sassuolo 2000, 5 ottobre 2018
11) Josh Constine, “Facebook survive Q4 despite slowest daily user growth ever”, Thecrunch.com, Jan 2018
12) “Facebook compra WhatsApp, operazione record da 14 miliardi di euro”, Corriere della Sera Tecnologia, 19 Febbraio 2014
13) “Mark Zuckerberg: The U.S. Should Learn From This State’s Basic Income Program”, Futurism, 5 July 2017
14) http://www.camera.it/application/xmanager/projects/leg17/commissione_internet/dichiarazione_dei_diritti_internet_pubblicata.pdf