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Un dialogo sul reddito di base

In occasione della campagna del Basic Income Network «ESTENDERE IL REDDITO DI CITTADINANZA. SE NON ORA QUANDO», invitando tutti i lettori e gli amici di Sudcomune a firmare la petizione (VAI AL LINK), ripubblichiamo un testo di due anni fa – oggi che la pratica del “reddito di base” ha la massima evidenza circa la sua positività – nel quale vengono descritte chiaramente le sue ragioni teoriche.
Buona lettura e firmate!

Francesco Maria Pezzulli: Da un po’ di tempo, in particolare dalle ultime elezioni politiche che hanno visto primeggiare il Movimento 5 Stelle, il discorso sul “Reddito” è tornato alla ribalta con particolare vigore; ma anche, come nel passato recente, con tutta una serie di ambiguità dovute alla sua declinazione nei termini del sussidio, come se si trattasse di una aiuto offerto dallo Stato a coloro i quali, cittadini italiani, sono in una condizione di povertà assoluta o relativa. Pasquale Tridico, il Ministro in pectore del potenziale governo Di Maio, in ultimo dà una ulteriore definizione restrittiva della proposta del M5S «un reddito minimo condizionato alla formazione e al reinserimento lavorativo». Da questo punto di vista il Reddito di Cittadinanza è molto differente da quanto auspicato dallo stesso Beppe Grillo e, in particolare, da ciò che abbiamo anzitempo definito Reddito di esistenza o, più semplicemente, Reddito di base. Ci spieghi perché, a differenza del Reddito di cittadinanza, quest’ultimo approccio non ha nulla a che vedere con le diverse forme di assistenzialismo oggi presenti in Italia?

Andrea Fumagalli: Il Reddito d’esistenza, o Reddito di base (RdB), deve essere erogato a tutti i residenti, cittadini o non cittadini, come reddito individuale (e non familiare) e soprattutto deve essere un reddito incondizionato: cioè non deve presupporre nessuna contropartita in termini di obblighi, di comportamenti reali o morali che siano. Inoltre, un terzo elemento per definire il RdB è che il fondo da cui attingere le risorse monetarie necessarie derivi direttamente da una quota della ricchezza sociale prodotta. Gli strumenti possono essere diversi: la politica fiscale (a livello territoriale, nazionale o sovranazionale), le relazioni industriali come esito di una vertenza collettiva nazionale o territoriale, la politica monetaria (quantitative easing) sino a immaginare un circuito monetario complementare e alternativo di creazione di moneta.
Per comprendere in modo appropriato questi aspetti bisogna, per prima cosa, compiere un salto di prospettiva culturale prima ancora che politica: occorre ribadire con forza che il RdB è una “variabile distributiva primaria”, cioè che il RdB interviene direttamente nella distribuzione del reddito tra i fattori produttivi. Allo stato attuale, si riconosce solo il salario come remunerazione dell’attività di lavoro; il profitto come la remunerazione dell’attività d’impresa e la rendita come remunerazione di una proprietà. A queste occorre aggiungere il RdB come remunerazione di quel tempo di vita (oggi diventata produttivo) che non viene certificato come tale. Variabile distributiva primaria significa che non è una variabile redistributiva, nel senso che prima si dà una distribuzione del reddito (tra salari, profitti e rendite) sulla base dei rapporti di forza esistenti all’interno di un certo processo di accumulazione e poi, una volta stabilita questa distribuzione, c’è un’organizzazione sovra individuale (di solito è lo Stato) che interviene per affinare questa distribuzione attraverso un processo re-distributivo indiretto.

FMP: Ti interrompo brevemente ma, a questo punto, la domanda sorge spontanea: se il RdB è una forma di remunerazione e non di sussidio o assistenza, in realtà cosa remunera?

AF: Il salto culturale consiste nel fatto che bisogna riconoscere che il RdB è la remunerazione di quell’attività produttiva di valore, dal punto di vista capitalistico, che oggi non viene certificata come prestazione lavorativa. Questo è l’esito di un processo epocale di cambiamenti strutturali nei processi di produzione e organizzazione del lavoro, che hanno segnato il passaggio da un capitalismo materiale fordista ad un capitalismo bio-cognitivo finanziarizzato. Parto da questo assunto: oggi la produzione di valore si basa contemporaneamente su forme di estrazione di “plusvalore assoluto” e di “plusvalore relativo”, dove per plusvalore assoluto si intende l’esistenza di un processo di accumulazione originaria – in un’organizzazione capitalistica basata sul rapporto capitale lavoro e sulla proprietà privata quale quella nella quale noi viviamo – che si estende orizzontalmente modificando il rapporto tra lavoro produttivo e lavoro improduttivo. Una parte di quest’ultimo lavoro, che nel capitalismo materiale fordista, veniva considerato non produttivo di plusvalore e quindi non remunerato, oggi è divenuto produttivo, mentre le forme giuridiche, giuslavorista, statuali e sindacali di remunerazione sono rimaste ancorate alla remunerazione di stampo fordista. Quindi si è creato uno iato, e cioè che una forma di lavoro produttivo non viene certificato come tale sulla base di regole concertative sindacali che non sono adeguate. Qui c’è un problema sindacale enorme! Questa attività di vita che produce valore senza alcun riconoscimento è vero e proprio lavoro gratuito (nel senso di non pagato), o, usando un’espressione più cruda ma più sincera, è lavoro schiavista, che dovrebbe essere remunerato attraverso l’introduzione di un RdB.

FMP: Su questo punto, nei decenni trascorsi, alcuni tra i sindacati e i partiti della sinistra hanno detto più o meno esplicitamente: va bene, riconosciamo che queste nuove forme di lavoro sono produttive e dunque proviamo ad agire anche con esse attraverso la concertazione sindacale in modo da poterle salarizzare. Non vediamo pertanto perché ci dovrebbe essere bisogno di un RdB. Cosa dici in proposito?

AF: Credo che questo modo di procedere abbia evidenziato un secondo problema teorico culturale, di cambio di prospettiva, di cambio di mentalità e di approccio metodologico. Un problema che nasce dal fatto che le trasformazioni tecnologiche e di organizzazione della produzione che oggi definiscono i processi di accumulazione e valorizzazione hanno sempre più interessato e evidenziato modalità di produzione caratterizzate da un elevato grado di non misurabilità, forme essenzialmente immateriali. Quando si mettono a valore tutta una serie di attività che sono legate ai processi d’apprendimento e alle reti di relazione, si mettono in moto dei meccanismi che gli economisti chiamano economie di apprendimento e economie di rete. Queste sono economie di scala di tipo nuovo, dinamiche perché con lo scorrere del tempo permettono di aumentare il livello di produttività. E non c’è niente di più dinamico e flessibile del linguaggio e della relazione. E dato che le tecnologie informatiche sono diventate sempre più pervasive, anche nell’agricoltura per intenderci, è chiaro che la nuova capacità di valorizzazione – le nuove forme di sfruttamento insite nel rapporto capitale/lavoro – oggi nascono si alimentano dallo sfruttamento dei processi di apprendimento e relazione. Teniamo presente che le economie di apprendimento si basano sulla generazione e diffusione della conoscenza, cioè il valore si crea proprio quando la conoscenza si diffonde. La conoscenza non è una risorsa scarsa come le merci fisico-materiali ma ha una proprietà fondamentale: più si scambia, più si diffonde e diventa abbondante e ciò mette in moto un meccanismo cumulativo fortemente produttivo. Questa produttività si manifesta e si valorizza nel momento stesso in cui entrano in gioco le economie di rete, ovvero la relazione e la cooperazione. Apprendimento e relazione sono due facce della stessa medaglia: se la conoscenza non si diffonde non c’è relazione e non c’è creazione di valore economico (plusvalore, che oggi assume la forma di “valore di rete”): le forme dell’accumulazione e della valorizzazione bio-capitalista richiedono sempre più forme di cooperazione sociale. Non si tratta evidentemente di cooperazione nel senso di: “mettiamoci insieme e facciamo una grande famiglia”, ma di co–operazione, operazioni fatte insieme, che sono operazioni che spesso nascondono forme di gerarchia e di sfruttamento. Questo elemento rende difficilmente misurabile il valore del lavoro all’interno della cooperazione sociale. Se nella fabbrica tradizionale la produttività, ad esempio il cottimo, era basato su precisi meccanismi tecnici che permettevano (e tuttora permettono) di misurare la produttività individuale, nel capitalismo contemporaneo la produttività della cooperazione sociale non è misurabile in termini di produttività individuale. Questo è un primo nodo problematico. Il secondo nodo è che lo stesso prodotto della cooperazione sociale non è misurabile. Quando si producono simboli, linguaggi, idee, forme di comunicazione, dati, controllo sociale, c’è un problema di misurazione. Non possiamo più dire:  “tu fai “tot” quindi,  ti pago “tot”: questo non è più possibile.

FMP: Ma anche se il “prodotto” non è più misurabile ci sarà pur qualcun altro a dare questo valore oppure no?

AF: Certo che c’è. Questo qualcun altro sono i mercati finanziari, perché oggi quello che dà valore alla produzione capitalistica a livello globale è il valore del capitale sociale delle aziende che organizzano, gestiscono e sfruttano la cooperazione sociale, aziende che sono quotate in borsa ed è la borsa che di riffa o di raffa dà una misura del valore, che è, tuttavia, una misura indiretta, imperfetta e fuori controllo. Per ritornare al nostro discorso, comunque, queste considerazioni ci portano a dire che la struttura salariale classica non è più adeguata, non coglie le trasformazioni che oggi agiscono. La struttura salariale classica può essere ancora utile in quelle parti del ciclo produttivo in cui esiste una misura del valore-lavoro. Dal punto di vista teorico, tutte queste tematiche portano alla necessità di rivedere, ripensare e ridefinire la teoria del valore lavoro di marxiana memoria ma non ad una sua eliminazione.
Dinanzi a questi problemi, dinanzi all’inadeguatezza della forma salariale come indice della remunerazione del lavoro,  il pensiero neo-operaista ritiene che un RdB (che si aggiunge alle forme salariali di remunerazione dove queste sono misurabili) è qualcosa di strutturalmente diverso dal salario, non è un’estensione della forma salariale, seppur complementare e sinergico (quindi non sostitutivo): qualcosa che tiene conto del cambiamento quantitativo e qualitativo che le nuove produzioni hanno generato.

FMP: Ma se non è possibile definire una unità di misura a quale livello facciamo il RdB?

AF: Il ragionamento ci porta a dire che il RdB debba essere fissato ad un livello “relativo” (non assoluto) e tale misura relativa potrebbe derivare dalla risposta alla seguente richiesta “politica”: «all’interno del processo di cooperazione sociale che si esplica in un determinato territorio, e che produce un “tot” di ricchezza, stabiliamo una quota che vada a compensare, a remunerare, la cooperazione sociale che non viene certificata come entità lavorativa e che quindi non viene remunerata». Quindi la distribuzione primaria del reddito va al di là del reddito da lavoro certificato, del reddito da impresa e del reddito di proprietà, perché a queste variabili distributive “classiche” si deve aggiungere il reddito della cooperazione sociale oggi invisibilizzata e non riconosciuta.
E’ necessario al riguardo riprendere un lavoro di inchiesta, che abbia come obiettivo la definizione della cooperazione sociale in un territorio (ad esempio il Mezzogiorno), la sua perimetrazione e l’indagine sulla sua composizione sociale per individuare e definire la catena del valore. Tale valore  può essere misurato? E possibile farne una stima? E’ possibile individuare chi, concretamente,  si appropria del valore di questa cooperazione sociale?
Come punto di inizio, in linea di massima, possiamo indicare come minimo livello relativo del RdB la soglia di povertà relativa. D’altra parte, oggi esistono forme di erogazione di reddito gestite dallo Stato, tipo le pensioni sociali, che sono al di sotto della soglia della povertà relativa (480 euro circa mentre la soglia della povertà relativa è di 780 euro circa, nel 2018) e più miseri sussidi di max 350 euro a famiglia per che vive in condizioni di povertà assoluta (e neanche per tutti costoro), come il ReiI (reddito di Inclusione). La soglia di povertà relativa è il livello minimo e qual è il livello massimo? Il livello massimo è definito dall’esito del conflitto. Come nel regime salariale si fissava un livello minimo di salario e poi su questo si organizzava la lotta per incrementarlo, cosi lo stesso principio, mutatis mutandis, dovrebbe valere per la definizione del livello del RdB inteso come remunerazione del valore prodotto dalla cooperazione sociale che oggi, invece, viene espropriata e canalizzata a vantaggio di pochi.

FMP: Ma perché una proposta di Reddito aderente a questa impostazione teorica ha visto la sinistra e il sindacato divisi, molto perplessi ed anche, a volte, ostili?

AF: Innanzi tutto perché la sinistra è imbevuta ancora di un’etica lavorista, che è oggi tanto più assurda quanto più ci troviamo in una realtà, che lungi dall’essere in un contesto di fine del lavoro è piuttosto caratterizzata dal lavoro senza fine. Uno dei fatti conclamati del cambiamento di paradigma produttivo e proprio l’aumento del lavoro precario e sottopagato sino all’incremento del lavoro schiavistico gratuito e, non casualmente,  dall’aumento dell’orario di lavoro ( i due fenomeni sono fra loro correlati), Un secondo aspetto è che sul discorso degli ammortizzatori sociali il sindacato si legittima come istituzione sociale riconosciuta del tutto inadeguata a rappresentare le nuove forme di lavoro. E’ il sindacato a decidere chi va in cassa integrazione, quando, con che tipo di cassa integrazione, e questo è un potere. Confindustria e CGIL sono sempre stati d’accordo per non mettere mano ad una seria riforma e semplificazione  di quella giungla, distorta e iniqua, che è oggi il sistema degli ammortizzatori sociali. Il sindacato trova una sua ragione di esistenza e di legittimità istituzionale, il padronato può scaricare sulla società i costi dei processi di ristrutturazioni e di licenziamento.
Intervenire dunque in modo strutturale a favore di un welfare che permetta  al lavoratore di passare da una richiesta retriva del diritto al lavoro al diritto alla scelta del lavoro vuol dire ridurre fortemente la sua ricattabilità. Si tratta di un potenziale effetto sovversivo all’interno di proposta eminentemente riformista come quella del RdB, che ha comunque degli elementi antisistemici in nuce (ma solo se è incondizionato): elementi che trovano i custodi dell’ordine e della disciplina dello status quo presente assolutamente contrari.

FMP: Da quanto detto credo che si capisca perché il RdB non deve essere considerato come una forma di assistenza sociale. Vuoi aggiungere qualcos’altro in merito?

AF: Si, perché in queste ultime settimane è costante il ritornello che accomuna il reddito all’aiuto per le “fasce più deboli della società”. La retorica (per di più, spesso fasulla) del Rei (Reddito di Inclusione) ne è la conferma. E’ come dire: ti diamo un po’ di reddito cosi non crepi visto che sei povero. Ma io sono una persona degna, sono un salariat*, un migrant*, un operai*, un precari*o, un lavorator* autonomo, un/a freelance, ecc., non sono un povero cristo, un pezzente che ha bisogno della carità delle dame di San Vincenzo o della carità istituzionale. Il RdB è la remunerazione di un’attività produttiva e in quanto tale deve essere per forza incondizionata. Se il RdB è la remunerazione di un’attività produttiva che ho già svolto, il RdB è nient’altro che la restituzione del maltolto, e quindi non si deve dare nulla in cambio, perché è un diritto. Dobbiamo capire che è possibile estendere questo discorso a tutte quelle attività semplici, umane, quotidiane, che sono diventate produttive di plusvalore, come ad esempio le attività legate al consumo e quelle legate alla cura e riproduzione sociale, alla gestione dell’arte, dell’ozio e del gioco, solo per citare alcuni esempi. Al riguardo, un ruolo sempre più importante è svolto dalla riproduzione sociale, concetto oggi – come ci dice Cristina Morini e altre teoriche del pensiero neo-femminista (vedi il la proposta di reddito di autodeterminazione del movimento Non una di meno) –  che va al di là del semplice lavoro di cura ma innerva sempre più il sistema di welfare, il “buen vivir”. Conoscenza, relazione e riproduzione sociale sono oggi i gangli della valorizzaione del capitalismo bio-cognitivo ed è su questi gangli che occorre immaginare pratiche non solo di resistenza ma di offensiva.

FMP: Quali credi siano i dispositivi di lotta, i dispositivi pratici che possono essere usati affinché il RdB sia riconosciuto come remunerazione della cooperazione sociale?

AF: Personalmente, credo che in un mondo flessibile come il nostro le risposte non possono che essere flessibili. Non c’è una risposta unica, ci sono tanti percorsi che devono essere attivati: c’è il percorso dell’inchiesta, tesa a favorire un processo di soggettivazione di liberazione, E’ necessario ribadire che ci sono una serie di attività umane che non sono naturali, ma sono attività sulle quali c’è qualcuno che specula, che sfrutta queste attività e ci guadagna qualcosa. Una volta si chiamava coscienza di classe, oggi il concetto di classe è molto diverso, non so se si può dire coscienza di moltitudine, ma non entro nel merito.  Vi è anche un problema di informazione, di soggettivazione e l’inchiesta ha il vantaggio di ampliare la conoscenza  e di contaminare.
Poi c’è il piano istituzionale e giuridico-legislativo: laddove ci sono le condizioni per agire in tal senso, reputo che attivarsi per una proposta di legge non significhi automaticamente  la rinuncia al conflitto, anzi penso che le due cose dovrebbero andare di pari passo. Su questo, però, devono essere ben chiare tre precondizioni affinché un meccanismo giuridico istituzionale possa mettersi in moto.
La prima è che debba esistere separazione fra assistenza e previdenza ed una riappropriazione del valore espropriato della cooperazione sociale deve essere finanziata da un fondo che attinga all’insieme dei profitti e delle rendite finanziarie di quell’1% che oggi governa il globo. Ma limitiamoci, ora come esempio di politica concreta, a pensare l’istituzione di un’adeguata politica fiscale in grado di finanziare un fondo per il finanziamento del RdB, in grado di promuovere un “bilancio del welfare” come componente autonoma del bilancio pubblico (seconda precondizione). Si tratta di un esercizio di pensiero, in grado di mostrare che ci sarebbero i mezzi per la sua attuazione.
Tale “bilancio unico di welfare” rendiconta tutte le entrate fiscali (non previdenziali o derivanti dai contributi sociali) che si ritengono necessarie (esito di una scelta politica) per finanziare la misura del RdB (tra le quali, ovviamente, un adeguato prelievo dai profitti e dalle rendite finanziarie e di proprietà intellettuale che oggi ne sono esenti) e le uscite corrispondenti che possono assumere aspetti diversi: reddito diretto, indiretto, eccetera. L’importante è che le voci di entrata e le voci di uscita siano confrontabili in un unico bilancio. Potrebbe sembrare una sciocchezza ma dietro c’è un problema politico enorme. Oggi le forme di welfare che si basano sul sostegno diretto al reddito sono suddivise tra vari capitoli di spesa, che fanno capo a livello nazionale a diversi ministeri ed a livello regionale a diversi assessorati, spesso in competizione fra loro. Ogni assessorato fa il suo bilancio di welfare in modo autonomo e non coordinato con misure di welfare attuate da altri assessorati. Cosi si attuano, come abbiamo sperimentato in molti casi (ad esempio nella Regione Friuli V.G), distorsioni e interventi selettivi e iniqui. Si tratta di  un problema politico che riguarda la coordinazione, oggi inesistente, tra le misure di welfare che ogni assessorato definisce su un proprio capitolo autonomo di spesa, con effetti spesso paradossali. Avere un bilancio unico di welfare è importante perché permette di capire e razionalizzare l’esistente. Peraltro la legge 326, legge Bassanini sulla riforma del welfare locale, già prevede una simile istituzione: si tratterebbe di applicare, ciò che la legislazione già prevede, tra cui l’istituzione di un Osservatorio sulle politiche di welfare e sulla distribuzione di reddito, in grado di razionalizzare le differenti erogazioni di welfare selettivo. Lo stesso problema, come già osservato, esiste a livello nazionale, per quanto riguarda il sistema degli ammortizzatori sociali.
La terza precondizione riguarda le forme di tassazione,: è necessario  definire  una concezione diversa della prestazione lavorativa dal punto di vista fiscale, alla luce delle trasformazioni avvenute. Ogni sistema fiscale si basa sulla tassazione dei fattori produttivi. Per quanto riguarda l’imposizione diretta abbiamo l’imposta sui alla quale si aggiunge la tassazione dei consumi e degli scambi, via imposizione indiretta (Iva). Sono questi i due cespiti principali della tassazione. La domanda che ci si pone è: quali sono i fattori produttivi oggi tassati in Italia? Il lavoro salariato dipendente, cioè l’Irpef, e la tassazione della proprietà dei mezzi di produzione, cioè delle imprese, delle società di capitale, cioè l’Ire (recentemente ridotta dal governo Renzi). Con il processo di precarizzazione e di flessibilizzazione e lo sviluppo del lavoro autonomo di seconda e terza generazione, esito del  processo di frammentazione del ciclo produttivo, tali nuove  forme di lavoro vengono considerate attività di impresa, quando  in realtà si tratta di pura prestazione lavorativa etero diretta. Si tratta di riformulare la tassazione del fattore lavoro adeguatamente a quelle che sono le nuove forme di prestazione lavorativa. E’ assurdo che ancora oggi tutte le volte che bisogna fare un po’ di cassa si aumentano i contributi ai lavoratori autonomi, pensando che i lavoratori autonomi siano quella figura piccolo borghese mitica degli anni ’50. Mentre se andiamo a vedere la struttura produttiva oggi, con la taylorizzazione del terziario, lo sviluppo del settore logistico, eccetera, vediamo che ci sono nuovi modelli di prestazione puramente lavorativa che quindi dovrebbero avere una tassazione omogeneizzata a quella delle prestazioni lavorative e non dell’impresa.
Ma ciò che conta è prendere atto che i fattori produttivi oggi fondamentali per la produzione di ricchezza non sono solo le macchine e il lavoro salariato dipendente, ma soprattutto la conoscenza e il territorio. Se la conoscenza è il fattore produttivo dove si genera apprendimento, il territorio è il luogo dove la conoscenza si diffonde e si generano economie di rete, è chi gestisce questi processi che dovrebbe essere tassato. Ci sono, oggi, una serie di attività di accumulazione (gentrification, diritti di proprietà intellettuali, rendita finanziaria) che potrebbero costituire una nuova e aggiuntiva fonte di prelievo fiscale, a cui attingere per finanziare il fondo necessario a garantire un RdB incondizionato a tutti coloro che sono al di sotto della soglia di povertà relativa.

FMP: Per concludere, una domanda tanto cara ai giornalisti, relativa alle risorse economiche necessarie per istituire il RdB. Quanto è concreta tale problematica?

AF: Su questo punto, occorre una seria riflessione. La vulgata massmediatica riduce la questione del RdB ad una problematica meramente economico, oltreché di assistenza sociale e pongono la questione della mancanza di risorse, soprattutto in tempi di austerity e di riduzione della spesa pubblica,  vincolata dai patti europei di stabilità. Si tratta di un falso problema, sollevato ad arte.
In Italia esistono circa 12,5 milioni di individui al di sotto della soglia di povertà relativa (780 euro mensili, che aumentano a seconda della composizione del nucleo familiare, sulla base delle tabelle Istat e Eurosta). Erano 8,5 milioni dieci anni fa.
L’Istat ha reso noto in un audizione alla commissione bilancio del Senato, con riferimento alla situazione economica del 2016, che le risorse necessarie per far sì che tutti coloro che si trovano al di sotto della soglia di povertà relativa raggiungano tale livello di reddito minimo assommano ad un ammontare stimato intorno ai 15-16 miliardi di euro l’anno. Attualmente, lo Stato italiano elargisce in modo distorto e iniquo, tra sussidi di disoccupazione, Aspi, Naspi e le forme rimaste di Indennità di mobilità e cassa integrazione, una cifra pari a circa 8-9 miliardi di euro. Se si procedesse a una riforma del sistema degli ammortizzatori sociali che abbia come scopo l’erogazione di una unica misura di reddito minimo incondizionato  in grado di sostituire le forme attualmente esistenti di sostegno al reddito sino alla soglia di 800 euro mensili (9600 euro l’anno), la somma netta da sborsare (tenendo conto che alcuni sussidi di disoccupazione sono superiori agli 800 euro mensili) è di circa 10-11 miliardi di euro l’anno. Si tratta di una cifra del tutto sostenibile, se pensiamo che nelle ultime tre leggi di stabilità (2016 – 2018) il governo italiano ha generosamente elargito al solo sistema delle imprese più di 25 miliardi di euro, tra incentivi al Jobs Act, riduzione dell’Ire (tassa sui profitti), eliminazione dell’Irap, decontribuzioni per l’assunzione di giovani, nonché superammortamenti per gli invstimenti in tecnologia. Ma di che cosa stiamo parlando? Ci prendiamo in giro? Come si vede, la questione non è economica ma squisitamente di scelte politiche  (e di classe).

Tratto da Sud Comune

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