Eppure la famiglia ha rappresentato, storicamente, tutt’altro che un baluardo contro le brutture che accadevano fuori di casa. Lo avevano capito bene, ad esempio, le femministe materialiste negli anni Settanta, in Italia, opponendosi alla divisione mistificatoria fra produzione e riproduzione e rivendicando un reddito a compensazione del lavoro di cura svolto entro le mura domestiche. Quella rigida demarcazione era funzionale a far gravare sulle donne quelle mansioni fondamentali alla riproduzione della «specie», come fosse un fatto naturale, «inseparabile» da quelle qualità femminili giudicate indispensabili al loro svolgimento. Quella spartizione, funzionale alla riproduzione dell’ordine sociale, non ha ancora ceduto del tutto, nonostante gli attacchi forti e intelligenti dei movimenti (basti pensare a «Non una di meno»).
Ma non è tutto. Sulla famiglia nucleare ha fatto perno l’organizzazione dell’intera società industriale, che ha assicurato protezione sociale al maschio lavoratore padre di famiglia e, solo attraverso la dipendenza da questo, a moglie e figli. Insomma, l’ordine e la gerarchia familiare, ben lungi dall’essere un fatto «privato», chiuso al mondo esterno, ha fornito la legittimazione «naturale» di un ordine sociale tutt’altro che scontato, segnato dalla preminenza assoluta del maschio eterosessuale lavoratore e proprietario. Proprietario non solo di se stesso e dei frutti del proprio lavoro, ma anche della casa e di chi in essa abita, compresa la «propria» donna.
Chiedere di rimanere in casa, oggi, non significa raccomandare alle persone di mettersi «in sospeso», al riparo da ciò che imperversa fuori, guardando il mondo in stato pestilenziale attraverso i vetri delle finestre. Significa, piuttosto, chiedere di restare ingabbiati in quello spazio che più di tutti è stato implicato nello sfruttamento e nell’oppressione, in cui più difficile è stato entrare per portare diritti e rivoluzione. Anche questo sanno bene le donne, che hanno lottato innanzitutto perché lo spazio domestico venisse assunto come spazio politico, tutt’altro che privato, ma anche irriducibile rispetto ad un pubblico che lo voleva congelato per sempre in gerarchie «naturali».
In casa siamo al riparo dal virus, e ci resteremo per responsabilità verso noi stessi e verso gli altri. Ma non siamo al riparo dai tanti mostri con cui ogni giorno facevamo i conti già prima che iniziasse questo incubo. Stare in casa vuol dire combattere ogni secondo con chi ti costringe a guardare le cose con i suoi occhi, mentre tu butteresti giù muri e finestre con il tuo corpo per strappare il mondo alle sue mani e alla sua parola. Vuol dire, inoltre, fare i conti con i propri fantasmi, che godono quando si sta più stretti, lì dove manca l’orizzonte a favorirne una più agevole dispersione.
Per tanti stare in casa significa subire in maniera ancor peggiore la propria condizione di dipendenza e sfruttamento. Precari, partite iva, lavoratori a nero, professionisti, lavoratori della «gig economy», disoccupati, vivono in questi giorni situazioni di mancanza e deprivazione, che rischiano di aggravarsi sempre più, anche dopo che l’epidemia sarà superata. E poi c’è chi è costretto a passare i giorni dell’epidemia nell’affollamento delle carceri e dei centri di reclusione per migranti, in uno spazio totale che non conosce affetti né finestre.
Altri ancora, in queste ore, devono andare a lavorare lo stesso, perché c’è chi non ammette che la salute possa essere messa prima del profitto. Tanti, nelle scorse settimane, hanno provato a riflettere sui rischi, in termini securitari, di uno stato d’emergenza che sta portando alla sospensione delle libertà più elementari. Oggi, forse, il campo di questa battaglia si fa più chiaro. Di fronte ad una minaccia oggettiva e tremenda alla vita di ciascuno, costituita dal Covid-19, le strategie messe in campo dai governi nazionali nascono dalla tensione fra interessi che, se non calcolati e amministrati adeguatamente, rischiano di entrare in collisione tra loro, facendo esplodere le contraddizioni interne alla governamentalità neoliberale. La necessità di salvaguardare la sicurezza delle persone che, come insegna Foucault, è alla base della meccanica degli interessi su cui si fonda il liberalismo, rischia di eccedere la compatibilità col mercato. Da qui le incertezze, in Italia, nella chiusura delle attività produttive, nonché i ritardi, in tutta Europa, nell’attuazione di misure di restrizione e contenimento.
C’è l’urgenza, in questo quadro, di affermare il primato della salute individuale e collettiva, oltre una subordinazione di questa alle logiche del profitto e dell’accumulazione. Mantenere quest’asse sarà fondamentale anche dopo che l’emergenza sarà superata, quando a chi vorrà sfruttare l’emergenza per rinsaldare l’ordine precedente bisognerà opporre le ragioni della solidarietà e della cooperazione per un altro mondo possibile.
Oggi è indispensabile, allora, creare davvero uno spazio «comune», che permetta a tutti di «stare in casa» dignitosamente, affrontando l’emergenza in maniera responsabile, come a tutti viene chiesto. È necessario rivendicare con forza un reddito di base universale, senza condizioni, a protezione di tutti. Nei giorni scorsi, i movimenti sociali, in Italia, si sono fatti portavoce di una campagna per il «reddito di quarantena» (Esclusi dalla Cura in Italia, la campagna per il reddito di quarantena). Nel frattempo, il Basic Income Network Italia ha lanciato un appello per il reddito di base , attraverso l’estensione del reddito di cittadinanza. Tale rivendicazione si presta ad essere rilanciata a livello internazionale, vista la diffusione del virus su scala globale.
Il virus ha messo il mondo «in sospeso». È fondamentale poter vivere questa sospensione in maniera libera e dignitosa, esercitando la solidarietà e la responsabilità oltre i muri e i confini. Si apre, qui, un orizzonte per il mutualismo e la cooperazione, proprio nel momento in cui più difficile è stare con gli altri, facendo un uso autonomo della libertà, che eccede i tentativi messi in atto per dirigerla e orientarla. Sarà forse possibile, a quel punto, trasformare l’emergenza in un’opportunità, che traduca l’autodeterminazione e la solidarietà in un nuovo modo di stare al mondo.