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Un reddito di base per affrontare crisi sanitaria ed ecologica

di Luca Cigna e Lorenzo Velotti

L’incapacità di agire strutturalmente e tempestivamente nei confronti della più grande sfida del nostro tempo – quella ecologica, di cui il Coronavirus e il surriscaldamento climatico non sono altro che due espressioni – mette in luce le contraddizioni insite nel modello di sviluppo economico e sociale capitalista. È nello stesso modello di sviluppo che, infatti, vanno ricercate le cause della crisi che stiamo vivendo.

L’impossibilità e la non desiderabilità di un ritorno alla «normalità», idilliaca e fittizia, a cui si appellano i difensori del modello neo- e ordo-liberista, motiva la necessità di andare oltre il breve termine, approfittando di questo momento di storica malleabilità politico-istituzionale per ripensare strutturalmente le politiche pubbliche, ecologiche e sociali.

Nella tensione tra «fine del mese» e «fine del mondo», la rivendicazione di un diritto al reddito, slegato dalla partecipazione nel mercato del lavoro, si traduce nella richiesta di un reddito di base universale e incondizionato, in grado di unire efficacemente la battaglia per un modello economico sociale ed ecologico con quella di un vivere dignitoso. Se l’emergenza del Covid-19 richiede interventi tempestivi, sfaccettati e trasversali, è con la crisi dell’attuale architettura istituzionale che politiche come il reddito di base universale si rivelano tanto semplici quanto essenziali per una quanto mai necessaria transizione verso nuove «normalità».

La normalità era il problema

Come evidenzia Francesca Coin, il Covid-19 ha operato un «disvelamento politico straordinario», mettendo in luce le contraddizioni insite nel modello capitalista. In poche settimane, molti  sembrano essersi accorti del peso eccessivo della finanza internazionale; della compressione dei redditi da salario e dell’aumento delle disuguaglianze; dell’erosione del welfare statein primis attraverso lo smantellamento del sistema sanitario; della destrutturazione di diritti e tutele a discapito di lavoratrici e lavoratori; dello sfruttamento insostenibile del resto della natura da parte di esseri umani e capitalismo; della non-onnipotenza e vulnerabilità della specie umana. In questo senso, l’emergenza del Covid-19 rappresenta sì la miccia di una crisi economica e sociale che probabilmente avrà proporzioni drammatiche, ma non la sua causa fondamentale, che risiede invece nella più ampia crisi ecologica e sociale alimentata dal modello capitalista.

È in questo momento di evidente debolezza dell’attuale struttura economica e istituzionale che le sinistre di tutto il mondo devono inserirsi. Le trasformazioni di questa architettura possono avvenire solo in «momenti eccezionali» della storia, come le crisi di sistema che ne mettono in luce le profonde ambiguità. Il momento attuale evidenzia le contraddizioni intrinseche al modello di sviluppo capitalista, e in particolare del paradigma neoliberista: un sistema che promuove lo «stato minimo» (la libera interazione delle forze di mercato) salvo poi ricapitalizzare le banche nei momenti di emergenza; che obbliga i produttori caseari a versare nel nulla migliaia di litri di latte perché la «domanda» corrente non è in grado di assorbirli; che protegge poche grandi corporations che, proprio nelle situazioni di crisi, guadagnano fette sempre più consistenti di mercato a discapito di chi fa economia locale e sociale; che considera i danni al pianeta prodotti da estrattivismo e inquinamento come «effetti collaterali» da vendere e comprare, quando invece è proprio sullo sfruttamento delle risorse naturali che fonda la propria sopravvivenza.

L’economista britannico James Meadaway ha scritto che la risposta necessaria alla crisi sanitaria in corso può essere definita «l’opposto di un’economia di guerra». Contrariamente alla abusata retorica bellica, se una guerra presuppone una mobilitazione totale delle risorse produttive, il Coronavirus richiede una smobilitazione forzata dei settori non essenziali al mantenimento della vita. La crisi climatica, se escludiamo l’approccio capitalista e anti-scientifico della crescita verde, richiede una simile smobilitazione di settori e pratiche ecologicamente e climaticamente insostenibili. Tanto a breve termine quanto nel lungo periodo, la dottrina macroeconomica dominante calibrata sulla crescita del Pil si trova del tutto incapace a far fronte alle necessità contemporanee. Urgono nuovi strumenti per garantire a tutte e tutti un’esistenza degna e piacevole senza distruggere la vita sul pianeta, gestendo efficacemente la necessaria decrescita materiale ed energetica di produzione e consumi, così come degli orari di lavoro. Il nuovo modo di fare economia deve mettere al centro i lavori di cura, più che mai fondamentali per sostenere i corpi, i territori, la vita.

Riconoscere la cura per sostenere la vita

Un reddito di base universale e incondizionato (d’ora in poi «reddito di base») è la misura che può venire incontro a queste molteplici necessità. Per reddito di base si intende un’allocazione monetaria versata mensilmente, incondizionatamente, regolarmente e a tempo indeterminato a tutte le persone che risiedono in un determinato territorio. Una misura di questo tipo è radicale perché disinnesca il legame tra il diritto a una vita degna e l’obbligo di lavorare e produrre, recando diversi benefici.

Innanzitutto, un reddito di base valorizza i lavori di cura ed eroga a chi li svolge una forma di riconoscimento universale quale il denaro, che serve tanto a sostenere la vita propria e di chi si cura, quanto a emancipare chi lo riceve. I lavori di cura sono prevalentemente svolti nell’ambito domestico o nell’economia informale da donne e da altri soggetti marginalizzati, tra cui persone migranti (regolarizzate o meno); si tratta spesso di mansioni sottopagate o non remunerate. Chi svolge questi lavori rimane spesso escluso dalle principali misure di sostegno al reddito, caratterizzati da alti livelli di condizionalità e burocraticità, come quelle contenute nel cosiddetto decreto «Cura Italia». Tuttavia, è proprio in questi giorni di emergenza sociale e sanitaria che la cura – di cui si occupano dalle badanti alle madri, dalle babysitter alle infermiere – si sta rivelando più che mai imprescindibile per la riproduzione della vita nella nostra società.

Il reddito di base riconosce e retribuisce il valore fondamentale che l’attività di cura apporta alla società. Come scrive l’antropologo statunitense David Graeber nel libro Bullshit Jobs, il capitalismo attuale sembra produrre un paradosso in cui i lavori che più contribuiscono alla società siano i meno pagati (con alcune eccezioni, i medici per esempio) mentre i più pagati sono quelli che meno contribuiscono alla società – o che addirittura le recano danno (pensiamo a hedge funders e simili). Riconoscendo che ognuno ha diritto a un’esistenza degna per il solo fatto di prendersi cura degli altri, del pianeta, o se non altro di sé stessi, il reddito di base è il primo passo per sgretolare le fondamenta di questo insostenibile paradosso.

La libertà di dire di no

Se nel momento attuale assistiamo a un processo di smobilitazione come risposta al disastro del Coronavirus, diversa è la smobilitazione pianificata per far fronte al (e prevenire il) disastro della crisi ecologica e climatica. Oggi, l’obiettivo delle nostre società dovrebbe essere quello di trasformare, in modo giusto ed equo, la prima nella seconda. Milioni di lavoratori e lavoratrici vivono un dilemma tragico, costretti a scegliere tra la salvaguardia della propria salute e l’ottenimento dei mezzi di sostentamento per garantire la propria sopravvivenza. Continuando a lavorare, uno si assume il rischio di prendere il Coronavirus per ottenere i soldi sufficienti per vivere; o può salvaguardare la propria salute ma rischiare di non arrivare alla fine del mese. Un reddito di base libererebbe le persone da questo tipo di ricatti.

Un esempio rappresentativo di questi dilemmi è quello dell’ex-Ilva di Taranto. Nonostante un caso di positività al Covid-19 in fabbrica, la ditta Arcelor-Mittal ha rifiutato di ridurre al minimo tecnico l’assetto dello stabilimento, come richiesto dai sindacati. Tuttavia, quello del Coronavirus è solo l’ultima plastica rappresentazione dell’inadeguatezza degli strumenti di politica economica contemporanei nel caso di Taranto, incapaci di superare il conflitto tra salute e lavoro, ecologia e profitto: su un piatto della bilancia viene messo uno dei più grandi disastri sanitari ed ecologici della storia europea; sull’altro ci sono 14.000 posti di lavoro da salvaguardare. Se ripercorriamo gli ultimi anni del relativo dibattito, il conflitto sembra inconciliabile. Eppure, la soluzione l’hanno suggerita alcuni dei lavoratori stessi in un volantino anonimo circolato tra gli operai qualche mese fa: «tutti a casa a stipendio pieno […] Non ci vergogneremo a stare a casa pagati, abbiamo già dato in fatica e salute sull’altoforno e in acciaieria, ora è tempo di curarci, respirare aria buona, studiare per istruirci, scrivere poesie». Un reddito di base è la risposta sensata ed emancipatoria ai molteplici ricatti che, in particolare nel corso di una crisi ecologica, sanitaria e climatica, oppongono salute ed ecologia al possedimento dei mezzi necessari per una vita degna.

Un reddito di base per la giustizia sociale

Nel loro recente libro (2017), Philip Van Parijs e Yannick Vanderborght sostengono che «la fattibilità politica» del reddito di base «è intimamente legata alla sua validità etica». Da questo punto di vista, è sbagliato paragonare il reddito di base ad altre misure di sostegno al reddito o contrasto alla povertà, soppesandone minuziosamente costi e benefici. Il reddito di base trova la sua ragione filosofica nella rivendicazione di un diritto al reddito, da equiparare a diritti che in alcuni paesi sono considerati intoccabili come l’educazione e la sanità. Secondo l’Organizzazione Internazionale del Lavoro, circa 1,25 miliardi di persone in tutto il mondo potrebbero perdere il lavoro per ragioni relative al Covid-19. In queste condizioni, non è più accettabile che il benessere di qualcuno sia strettamente legato alla sua situazione lavorativa, rovesciando la responsabilità di una crisi sistemica sulla pelle delle persone più svantaggiate. Al contrario, un pavimento di reddito incondizionato per tutti e tutte aumenterebbe il potere negoziale del precariato globale, liberando lavoratori e lavoratrici dalle catene della sotto- e disoccupazione e assicurando standard di vita adeguati contro le avversità.

In molti paesi, i lavoratori precari o dell’economia sommersa sono particolarmente esposti alle conseguenze economiche e sociali della pandemia. In Italia, secondo la Fondazione Studi dei Consulenti del Lavoro, 3.6 milioni di persone (il 16% degli occupati) operano in settori a rischio chiusura. I lavoratori autonomi sono tra le categorie più penalizzate: fino al 75.9% di questi potrebbe vedere le proprie commesse cancellate o rinviate. Questi gruppi del mercato del lavoro tendono a essere esclusi da garanzie come giorni di malattia, riduzione compensata dell’orario di lavoro e sussidi di disoccupazione. Allo stesso modo, la crisi in corso penalizza i last-mile workers, come i lavoratori della logistica e della filiera alimentare, che continuando a effettuare le proprie mansioni sono esposti in maggior misura al rischio di contrarre il virus. Garantendo la libertà di dire no a lavori sotto-tutelati e sottopagati, un reddito di base sarebbe il primo passo per la transizione verso un modello socio-ecologico che metta al centro le persone e non i profitti.

Il carattere radicale del reddito di base risiede proprio nella libertà di dire no: la libertà di rifiutare un lavoro malpagato e rischioso, magari per un’industria particolarmente dannosa per la salute mia, degli altri e del pianeta. Il reddito di base è una misura che ha al centro la libertà perché (al contrario, per esempio, del presente reddito di cittadinanza) non chiede niente in cambio. Dando la libertà di dire no a lavori umilianti e inadeguati, il reddito di base ci aiuterebbe a dire sì a lavori che troviamo attraenti e in linea con le nostre aspirazioni, e la stragrande maggioranza dei dati disponibili (un esempio qui) mostra che quasi tutte le persone sceglierebbero di farlo. Un reddito di base darebbe la possibilità di scegliere quanto, come e in che modo lavorare, esercitando una vera libertà di scelta e non per mancanza di alternative.

Nuovi problemi, nuove risposte

Se il superamento di un certo modello economico è permesso dal susseguirsi di anomalie empiriche e fallimenti nel rispondere a nuovi problemi con «vecchie ricette», è compito di nuovi attori e coalizioni di approfittare delle crepe del vecchio ordine per dare legittimità a idee e proposte alternative. Pochi giorni fa, l’insospettabile Editorial Board del Financial Times ha affermato che è il momento di prendere in considerazione misure prima ritenute «eccentriche», come redditi di base e patrimoniali. Dovremmo approfittare dello spiraglio che si apre davanti a noi – e di quelle che sembrano le prime crepe di cedimento del vecchio sistema – per promuovere altri immaginari e «tasselli» di nuove, più sostenibili, normalità.

Al contempo, dovremmo evitare di considerare il reddito di base una panacea. Nella maggior parte dei casi, chi perderà il lavoro incorrerà in danni ben più gravi di quanto possa essere compensato attraverso un reddito di base fissato poco sopra la soglia di povertà. In questo senso, la più grande forza del reddito di base rappresenta anche la sua più grande debolezza: recidendo il legame tra reddito e impiego, un reddito di base ripagherebbe con la stessa moneta persone che incorrono in perdite di entità ben diversa tra loro. Inoltre, un reddito di base potrebbe non garantire accesso a quei benefici che in molti paesi sono legati al contratto di lavoro, come l’assicurazione sanitaria, servizi di cura e congedi. Per questo motivo, il reddito di base è condizione necessaria ma non sufficiente per garantire benessere ed equità e per liberare le persone dalla morsa del lavoro povero, precario o non retribuito; non esiste diritto al reddito senza un diritto alla sanità, all’istruzione, e al lavoro sicuro e ben pagato. Urge associare la proposta del reddito di base a quella di maggiori protezioni, invertendo il trend di deregulation degli ultimi decenni. Nel frattempo, un giubileo (laico) per le remissioni dei debiti (estremamente comuni nella storia dell’umanità durante crisi di portata storica) sarebbe utile a rompere i meccanismi estrattivi su cui si fonda il neoliberismo e a rendere il reddito universale una misura più equa.

A livello strategico, l’idea di un reddito di base potrebbe trovare meno ostacoli del solito nel dibattito pubblico. Come afferma Karl Widerquist, le due principali critiche alla misura – che nessuno debba restare con le mani in mano e che non ci siano abbastanza soldi per finanziarlo – semplicemente non si applicano alla situazione corrente. Oggi più che mai, è chiaro che una riduzione della quantità di lavoro sia desiderabile per motivi sanitari e climatici, ed è nuovamente evidente come enormi somme di denaro possano essere tirate fuori dal nulla. Non è compito di questo articolo spiegare e difendere le molteplici proposte per finanziare un reddito incondizionato, ma è ragionevole citare due possibilità. Dal punto di vista della politica fiscale, una tassa sui grandi capitali riporterebbe giustizia e uguaglianza in uno dei periodi più disuguali della storia dell’umanità in senso re-distributivo. Per quel che riguarda la politica monetaria, l’introduzione del reddito di base potrebbe essere associato a un processo di riforma del modo in cui il denaro stesso viene prodotto in senso pre-distributivo. Se oggi il denaro è creato privatamente sotto forma di debito fruttifero, domani potrebbe essere in parte creato e distribuito direttamente a tutte e tutti sotto forma di helicopter money.

La crisi ecologica poliedrica in cui ci addentriamo non può essere curata con le stesse ricette che l’hanno causata. Per uscirne, dobbiamo rapidamente muoverci verso una nuova normalità. Il reddito di base è il primo grande passo per uscire dalla crisi attuale, evitare che si rafforzi, e costruire un futuro di benessere, dignità e cura. Non c’è più tempo: il momento è ora.

*Luca Cigna è ricercatore presso l’Osservatorio sul Futuro del Lavoro (Jsp) della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli. Si è specializzato in Politiche Pubbliche e Sociali a Sciences Po Paris. 
Lorenzo Velotti si è specializzato in Antropologia e Sviluppo alla London School of Economics and Political Science.

 

Tratto da Jacobin Italia

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