Articolo di Piero Bievilacqua in risposta all’appello a prendere parola del Bin Italia e pubblicato su Il Manifesto.
Le gaffe di Monti e delle sue maldestre ministre sul lavoro e le “oziose attitudini” della nostra gioventù – sinistra forma di scherno su una tragedia sociale di proporzioni mai viste – hanno avuto da più parti la risposta che meritavano. Splendido, fra gli altri, M. Gotor su Repubblica del 7 febbraio. Val la pena tuttavia ricordare, che i nostri uomini e donne di governo non compiono solo l’errore di scambiare la condizione privilegiata della propria famiglia con quella generale degli italiani. Non solo confondono la complessa realtà del nostro tempo con i manuali di economia studiati nella loro lontana giovinezza. Ma soprattutto non hanno nessuna idea delle forme inedite e socialmente distruttive che ha assunto il capitale nel nostro tempo. Ne è prova la caparbia insistenza con cui ripropongono come rimedio alla disoccupazione la ricetta che in parte ne è la causa: la flessibilità. Quasi 20 anni di flessibilità del lavoro che ha prodotto, come mostrano i fatti, precarietà e crescente disoccupazione, soprattutto giovanile, stagnazione economica, decadimento delle infrastrutture civili e dei servizi dell’intero paese. Ma per loro non basta e l’articolo 18 resta il totem arcaico da abbattere.
Dunque, siamo di fronte a un caso conclamato di quella che Einstein chiamava “insanity”, follia: « fare la stessa cosa e continuamente ripeterla e aspettarsi risultati diversi.>> Fa parte di tale insania – comprensibile in un epoca in cui la mente di tanti uomini è diventata un dispositivo tecnico per pensare un unico pensiero – l’idea che l’uscita dalla Grande Crisi in cui annaspiamo, ridarà al paese la piena occupazione perduta, sia pure in forme “cangianti” e flessibili. Basta riprendere la crescita – è questa la vulgata pubblicitaria in Italia e nel mondo – e tutto ritornerà più bello e più splendente che pria. Tocca allora ricordare che questo, con assoluta certezza, non avverrà, perdurando l’attuale modello di accumulazione capitalistica. La certezza evidente nasce da una rapida ricognizione storica. Prima della Crisi, e a dispetto della crescita economica, la piena occupazione era sparita da un pezzo dalle società industriali. Il secolo scorso si era chiuso con 35 milioni di disoccupati nei paesi OCSE (8% delle forze di lavoro, 11% nell’Unione Europea). La crescita dell’occupazione che spesso, negli anni successivi, è stata vantata da governi e stampa benevola, è stato il lavoro frammentato e precario con cui si è cercato di mettere i lavoratori al servizio intermittente delle imprese. Utile per incoraggiare le statistiche, assai meno per dare redditi dignitosi e continuativi ai lavoratori. Se la situazione era questa prima della crisi, solo un atto di fede, non certo una previsione razionale, può fare immaginare l’approdo a una condizione di piena occupazione per effetto della crescita nei prossimi anni.
Occorre qui almeno accennare a una riflessione generale. La sempre più ridotta capacità del capitalismo di creare posti di lavoro, nasce da un insieme di cause congiunturali e storico-strutturali che l’opinione economica dominante non vuole in nessun modo vedere. Cercherò di elencarli brevemente. La prima e più ovvia causa è che le società capitalistiche mature hanno un ritmo di crescita ridotto rispetto al passato. Un andamento che negli ultimi anni ha risentito anche del fatto che una parte degli investimenti si sono indirizzati verso i paesi a bassi salari e a bassa protezione ambientale. Tra il 2000 e il 2005 gli USA, ad esempio, hanno perso 3 milioni di posti di lavoro nelle manifatture, tra ristrutturazioni e delocalizzazioni. Ma al fondo c’è un mutamento strutturale che segna una cesura rispetto ai decenni precedenti. La maturità del capitale oggi significa soprattutto il declino dell’industria automobilistica, la più grande fabbrica labor intensive del ‘900. Questa industria, insieme a quella degli elettrodomestici, è stata in grado, in Italia come negli altri paesi avanzati, di svuotare quell’immenso serbatoio di forza lavoro che erano le campagne dell’Occidente. Milioni di contadini sono diventati classe operaia nel giro di pochi anni. Com’è noto, quell’industria non solo alimentava a monte l’attività mineraria e siderurgica per i suoi materiali, ma aveva intorno le piccole e medie imprese dell’indotto, a valle l’industria delle costruzioni stradali e autostradali. Questa immensa idrovora di forza lavoro ha ormai ridotto i suoi ranghi e in Occidente non risorgerà nulla di simile. Lo dice eloquentemente un dato che è anche un tratto distintivo del capitale oggi: 30 milioni di auto ogni anno rimangono invendute. Il ministro dell’Istruzione e dell’Università, Profumo, in una intervista a Repubblica (6.2.2012) ha paragonato la capacità di Internet di attivare economie, all’industria automobilistica del dopoguerra. Pensare che essa possa creare tanti posti di lavoro quanti ne ha generato il settore dell’auto è una illusione che gli USA hanno già scontato. E questo, almeno per una ragione fondamentale: se è vero che l’informatica apre continuamente nuove possibilità operative e di servizi, la sua indomabile forza, la sua centralità, è sostituire lavoro con processi automatizzati. Consiglierei a questo proposito la lettura ( e possibilmente la traduzione) del testo di un ingegnere della Silicon Valley, Martin Ford, The Lights in the tunnel, che mostra la gigantesca sostituzione di lavoro con processi informatici in arrivo nei prossimi anni.
Ma la nostra epoca, e le nostre società opulente, sono contrassegnate da un fenomeno ignoto alle società del passato: la rapida obsolescenza delle innovazioni di prodotto, che riducono i margini di profitto delle imprese a una velocità prima sconosciuta. Esse si muovono in un mercato che si satura rapidamente. Quanto è durata l’automobile, quanto il computer prima di diventare un prodotto maturo? Quanto dura sul mercato un nuovo cellulare che è costato elevati investimenti in ricerca, realizzazione, commercializzazione? Quanti sono oggi gli attori imprenditoriali che si contendono il mercato di prodotti affini? E occorre, a questo proposito, ricordare che – al di la della spasmodica ricerca di profitti- l’asprezza della competizione mondiale fa la sua parte nello scoraggiare il capitale ad entrare nel circolo Denaro-Merce-Denaro. Esso trova sempre più lucroso attivare il circolo D-D-D, cioè operare nelle attività meramente finanziarie senza passare per l’ impegno gravoso della produzione. Infine, com’è noto, ubbidendo ai dogmi neoliberisti, i governi hanno quasi dismesso ogni impegno imprenditoriale pubblico, riducono progressivamente il welfare, che è stato ed è ancora fonte di posti di lavoro. Una tendenza che si avvita su se stessa, generando concentrazione di ricchezza privata e impoverimento di risorse pubbliche.
Se questo quadro sommario è esatto, l’esortazione alla crescita proveniente dal Governo e gli indirizzi che la ispirano non risolveranno il grave problema della disoccupazione nel nostro paese. Purtroppo, non è neppure necessario scomodare le tendenze di fondo del capitale per pronosticare che essa è destinata ad aggravarsi almeno nei prossimi due anni, vista la recessione in atto. E allora ? Quali sono i progetti per alleviare la sofferenza di milioni di disoccupati? Come si intende aiutare oltre il 30% della nostra gioventù che non ha più alcuna prospettiva di lavoro davanti a se?
Questa è una domanda, tuttavia, che non deve guardare al problema come a un fatto transitorio e congiunturale. Essa si inscrive in un più ampio interrogativo di prospettiva che André Gorz formulò in un suo scritto nel 2005: << quando la società produce sempre più ricchezza con sempre meno lavoro, come può far dipendere il reddito di ognuno dalla quantità di lavoro che fornisce ?>>
Com’ è noto, una risposta certamente parziale, ma importante e per tanti aspetti tendenzialmente rivoluzionaria, esiste. Una risposta che tante forze, gruppi, ambienti intellettuali sollecitano e che costituisce una realtà già operante in tanti paesi d’Europa, come ricorda Giuseppe Bronzini nel suo Il reddito di cittadinanza. Si chiama reddito minimo o di cittadinanza, o universale e conosce varie declinazioni. La sua diffusione decreta ormai la separazione sempre più spinta tra lavoro e reddito. Quest’ultimo non può più dipendere in assoluto da una occupazione che diventa sempre più rara. E’ arrivato il momento, per le società opulente, di destinare risorse cospicue ai cittadini cui non sa più fornire lavoro. Altrimenti il capitalismo tracolla per sovraproduzione e la democrazia prende una china dagli esiti imprevedibili.
Oggi un redditto minimo fornito ai nostri giovani tra i 18 e 35 anni costituirebbe una leva importante non solo per fare uscire milioni di ragazzi dalla disperazione, ma per fornire aiuto alle famiglie, ridare fiducia e un qualche slancio al nostro paese. Quanti ragazzi potrebbero così proseguire i loro studi e ricerche, intraprendere da soli o in cooperativa, qualche attività stabile senza perdersi in lavoretti per sopravvivere, attivarsi nel volontariato, cooperare con i comuni, svolgere compiti utili nei territori? Pochi immaginano quale sollievo sarebbe oggi anche un minimo sostegno in famiglie dove i genitori sono in cassa integrazione, o senza lavoro, dove misere pensioni tengono a galla più persone. Un reddito minimo non è l’avvilente assistenza che si teme. Esso è ormai una condizione di libertà, fornisce una base minima ai cittadini per non chinarsi alla mortificazione di chi impone condizioni non tollerabili di prestazione, per progettare e creare nuovi servizi, per svolgere attività di valorizzazione dei beni comuni. Si vuole davvero fare retorica sulla fine del posto fisso? Bene, facciamo scegliere con un po’ più di libertà dal bisogno quali lavori i nostri giovani vogliono scegliere e cambiare. Un tale obiettivo ha un pregio politico, che non si fa fatica a scorgere. Esso potrebbe unificare l’intera sinistra, fornirle un versante rivendicativo e contrattuale forte e unitario, toglierebbe dall’isolamento il sindacato. Anche lo smarrito PD potrebbe guadagnare una immagine meno servizievole nei confronti del governo e assumere un profilo rappresentativo più spiccato dei bisogni del paese. E sì che questo partito ne avrebbe bisogno, di fronte all’onda di discredito che si è abbattuta sul ceto politico e che è destinata a ingigantirsi nel prossimi mesi di crescente disperazione sociale.