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Un reddito per tutti e tutte

di Tilt

La questione del reddito è divenuta ormai centrale. Non è più possibile immaginare solo un programma di cambiamento radicale per l’Italia senza tenere presente tutto il dibattito e tutte le proposte a riguardo del “reddito”, che sia esso minimo, garantito, o di cittadinanza. E per le donnela questione è ancora più dirimente.
La disoccupazione che attanaglia le giovani generazioni in Italia riguarda in modo particolare le donne: esse sono la parte più colpita, con cifre di disoccupazione da far venire i brividi, in modo particolare nel Mezzogiorno. In questo quadro le giovani donne sono spesso costrette a rinunciare alla ricerca di un lavoro e, di conseguenza, ad avere un reddito proprio che ne garantisca l’indipendenza. Le più for-tunate, invece, si destreggiano tra contratti precari e redditi da miseria che, come nel caso di prima, non garantiscono certo una vita dignitosa ne la possibilità di immaginarsi un futuro e di progettarsi, quindi, in modo autonomo.

E’ del tutto evidente che la conseguenza di tutto cio’ è un riflusso nella sfera privata, un ritorno al ruolo meramente ri-produttivo della donna, che è ridotta, di nuovo, sul piano culturale, al modello di sposa-madre. Tuttavia, viste le condizioni economiche delle giovani generazioni (quindi anche degli uomini), questo modello di donna è difficile da prodursi nella realtà, in quanto, ad oggi, ad una giovane coppia è letteralmente impedito di avere una casa o un figlio. Esiste, dunque, uno scarto nettissimo tra cio’ che i modelli liberisti vanno predicando e cio’ che invece si produce effettivamente nella realtà.

Ecco che allora non è più sufficiente (e questo vale per tutta l’Europa) una politica meramente “lavorista”, con al centro l’idea del lavoro per tutti. Gli innumerevoli tentativi “socialde-mocratici” inseriti in questo solco non hanno prodotto alcunché; di contro la crisi occupazionale continua ad aggravarsi e le giovani e i giovani ad impoverirsi.

E’ per questo che è giunta l’ora di una seria riflessione e proposta di un reddito minimo anche in Italia. Il Governo dei “Tecnici” conduce da mesi ormai una battaglia feroce contro il mondo del lavoro, di cui la questione “Articolo 18” è divenuta l’emblema. Ma allo stesso tempo, c’è in campo un’altra battaglia, un po’ meno evidente: quella contro i giovani. In nome dei giovani si vogliono cancellare le tutele delle vecchie generazioni, ma contro i giovani resta intatta la miriade di contratti precari, si tassano le borse di studio, si chiedono le tasse a dottorandi e assegnisti di ricerca! La verità, dunque, è che i giovani  resteranno precari e poveri a vita. E, in modo particolare, le giovani donne.

La proposta, invece, di un reddito minimo darebbe fiato e speranza alle giovani generazioni. La sicurezza di poter avere un reddito minimo su cui contare darebbe nuova linfa vitale alle nostre esistenze. Il reddito minimo diventerebbe lo strumento per assicurare alle giovani e ai giovani un’esistenza dignitosa, per combattere la precarietà e per non essere più ricattabili. Permetterebbe di scegliere un buon lavoro, e non un lavoro qualunque, sottopagato e spesso a nero.

Per le donne, in particolare, il reddito minimo sarebbe la cifra di un percorso nuovo verso l’autonomia, ne consentirebbe appunto l’indipendenza materiale e la possibilità di scelta per il proprio futuro, fuori dalla dinamica antitetica produttrice/ri-produttrice.

Il cuore di una nuova pratica femminile passa dalla riflessione sul reddito minimo: senza reddito non c’è indipendenza e i lavori di oggi non lo garantiscono, per cui è indispensabile, oggi più che mai, l’esistenza di un reddito minimo. Ecco perché molte delle questioni sollevate da alcuni gruppi di donne sono delle questioni da retroguardia, che non parlano alle giovani italiane. Scrivere paternalisticamente al Presidente della Repubblica oppure continuare a parlare di asili nido non è efficace: il Presidente risponde come un buon padre di famiglia, gli asili nido tra un po’ non serviranno più perché non potremo, materialmente, fare dei figli! Anche la legge sulle dimissioni in bianco salverà poche donne, se queste ultime avranno sempre più contratti a termine e di durata ben inferiore ad una gravidanza, per i quali sarà sufficiente il mancato rinnovo.

In un momento di crisi strutturale, quale quello che stiamo attraversando, è necessario uno strumento che ci consenta di liberarci. Il lavoro non è più quello conosciuto dalle nostre madri e dai nostri padri, quello che ti determina e ti da un ruolo nel mondo, ti mette a contatto con altre persone e ti consente di creare insieme a loro l’antidoto alla sottrazione perenne dei diritti. Il welfare visto solo in chiave assistenzialista non basta più. Occorre un modello universale che permetta di avere strumenti per crescere a parità di condizioni, di rispondere a quei diritti inalienabili che attengono alla dignità delle persone. Per questo occorre immaginare un nuovo modello di sviluppo, di welfare, di paese, occorre avere il coraggio di dotare le persone di uno strumento, quale il reddito, che dia loro fiducia, la stessa che serve alla democrazia per non essere sconfitta dalla finanza.

Per riscoprire il valore del lavoro, per non svuotare di senso l’articolo 1 della nostra Costitu-zione bisogna ripartire dai diritti e non dai profitti. E il primo diritto anche per l’Europa in cui abbiamo creduto (quella del manifesto di Ventotene, non quella delle banche) è quello all’esistenza. Se non saremo in grado di garantirlo a tutt@ ed in particolare alle giovani generazioni non riusciremo a riconquistare gli altri, quello alla salute, alla mobilità sociale, allo studio e alla formazione, alla casa, in poche parole quello per cui vale la pena lottare: il diritto alla felicità.

Pubblicato su: Zero violenza donne 17 aprile 2012

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