Il JobsAct: una riforma nel segno del compromesso storico tra Lega Coop e Compagnia delle opere. Per eliminare l’ “apartheid” tra garantiti e non garantiti si cancellano i diritti di tutti. Non si tratta di dare lavoro, purché sia, ma di interrogarsi sul suo senso per le persone e per l’intera società e di garantire un reddito minimo garantito e un Welfare universale.
Torna l’autunno e con esso l’eterno dibattito sul mercato del lavoro in Italia. È il solito disco incantato, da trent’anni a questa parte. Dai maestri giuslavoristi della prima Repubblica dei partiti, come Gino Giugni, ai mesti epigoni, i piccoli tecnocrati di governo, Fornero e Sacconi. Passando per gli utili riformisti di “sinistra” Treu e Damiano. Ecco l’intero arco costituzionale della seconda Repubblica pronto a intonare lo stantio e odioso ritornello della flessibilità che porta maggiore occupazione, in un Paese dove flessibilità fa rima, da sempre, con precarietà, insicurezza, sfruttamento e clientelismi.
E finisce in questo tunnel temporale anche il rottamatore Presidente del Consiglio Matteo Renzi, con la scusa: «ce lo chiede l’Europa». Ma manda avanti il Ministro del Lavoro Giuliano Poletti, forte del consenso conquistato come leader delle cooperative rosse e sintetizzato nel Jobs Act. Un miscuglio della più ortodossa ideologia paternalista del lavoro a tutti i costi, anche se precario, senza garanzie e retribuzione (Expo 2015 docet). Ecco l’ennesimo, insopportabile, «compromesso storico» saldamente al governo del Belpaese: quello di Lega Coop e Compagnia delle Opere. Con la stessa ottusa convinzione che per eliminare la tanto evocata apartheid tra garantiti (assunti a tempo indeterminato) e non garantiti (precari-e e intermittenti, soprattutto della retribuzione) si debbano togliere i diritti a tutti. Come per un scherzo della Storia il ritorno dell’eguaglianza è nel segno dell’eguale assenza di tutele, sicché precari-e e strutturati possano sanamente competere per difendere, o ottenere, quel (posto di) lavoro sempre più evanescente, squalificato, impoverito e senza dignità. Facendo finta di non vedere che la precarietà di lungo corso è diventata, negli anni della Grande Depressione, sottoccupazione, disoccupazione, lavoro povero e gratuito: dai giovani NEET, senza studio, lavoro, formazione, agli over-40 e 50 espulsi dal “mercato del lavoro”.
Per questo non si tratta di dare lavoro, purché sia, ma di interrogarsi sul suo senso, contenuto, retribuzione e “utilità”, per le persone e per l’intera società. Partendo da una grande campagna di solidarietà, che preveda garanzie universali e un reddito minimo garantito per sfuggire ai ricatti dell’impoverimento e del lavoro gratuito, e permetta quindi alle persone di riconoscersi in un progetto di trasformazione sociale lontano dalle miserie delle prima e seconda Repubblica, nelle quali rischiamo di affogare tutti, compreso il giovane Renzi, con tutti i suoi turbamenti.
pubblicato su Left – avvenimenti, 4 ottobre 2014, n. 38, p. 16, con il titolo Il lavoro a tutti i costi non paga.