In questa intervista di Luca Negrogno a Yuri Kazepov pubblicata in due parti sul blog dell’Istituzione Gian Franco Minguzzi (prima parte qui e seconda parte qui) si riflette sulla necessità di superare l’attuale sistema di Welfare frammentato, categoriale ed escludente, anche nella pandemia globale che stiamo vivendo, per introdurre politiche pubbliche sociali universalistiche e più inclusive, anche a partire da un reddito minimo, quanto più universale e meno condizionato possibile. «Che un reddito minimo serva è innegabile e in tutti i paesi europei una qualche forma di sostegno al reddito esiste. […] In Italia sarebbe necessario un cambiamento culturale!»
Yuri Kazepov insegna Sociologia e Sistemi di welfare comparati all’Università di Vienna. È membro fondatore del Network for European Social Policy Analysis (ESPAnet) ed ex presidente di RC21 nell’ambito dell’International Sociological Association. I suoi interessi di ricerca vanno dalla governance urbana, a questioni di cittadinanza ed esclusione sociale in contesti urbani e politiche sociali in prospettiva comparata.
Luca Negrogno lavora presso l’Istituzione Minguzzi della Città Metropolitana di Bologna
- Le politiche sociali determinano forme di stratificazione e di ingiustizia. Sembra contro intuitivo per noi che siamo abituati a pensare che le politiche sociali sono il principale strumento per garantire l’uguaglianza. Dal punto di vista delle scienze sociali, però, le politiche sociali appaiono anche come particolari forme di stratificazione, di distribuzione dei rischi, che possono favorire certi gruppi a svantaggio di altri. Mentre si sviluppa il dibattito sulle misure di politica economica per fronteggiare la crisi, abbiamo chiesto al prof. Yuri Kazepov, Docente Ordinario di Politiche sociali comparate all’Università di Vienna, di fornirci un quadro per capire questi fenomeni, anche a partire dai primi ammortizzatori sociali disposti dal Governo.
YK “Le politiche sociali hanno la funzione di redistribuire la ricchezza che una società produce e possono essere di varia natura. Studiarle consente di comprendere chi ne beneficia, quali condizioni pongono per accedervi, verso quali strati di società orientano una parte delle risorse che emergono dallo sforzo collettivo. Allo stesso modo, rientra nello studio delle politiche sociali la definizione del come e del dove si debba trarre questa parte di risorse. Per esempio: attraverso la fiscalità generale; oppure intervenendo direttamente come Stato nella produzione; oppure garantendo (o meno) l’accesso a forme di edilizia popolare per una quota più o meno alta di popolazione, ai servizi educativi gratuiti per l´età prescolare, a infrastrutture e servizi pubblici essenziali. La politica opera differentemente, decidendo priorità e favorendo alcuni rispetto ad altri, seguendo specifici valori o principi di riferimento, che in democrazia possono essere in conflitto, competizione o alleanza tra loro. Anche i non esperti, cioè la stragrande maggioranza della popolazione, devono potersi fare un’idea di quali implicazioni certe decisioni possano avere e se queste coincidano con il proprio concetto di giustizia sociale. Per funzionare, quindi, è necessario che le democrazie godano di un dibattito chiaro e consapevole sulle tematiche di cui abbiamo parlato. Solo sulla base di questo si può consapevolmente sfruttare questo momento emergenziale per andare verso un sistema più giusto. Oggi possiamo collettivamente riflettere sull´opportunità o meno di un ritorno allo status quo esistente prima della crisi da coronavirus, perché emergono con più chiarezza i limiti di quella situazione, e le diseguaglianze che ha prodotto. Possiamo anche cercare di indirizzare le scelte attuali e future verso un sistema più giusto”.
Il prof. Kazepov studia da 20 anni le politiche sociali in un’ottica comparata, confrontando cioè la loro forma e il loro impatto nei vari paesi europei. Dal suo punto di vista la crisi pandemica in atto sta esasperando ed estremizzando le disuguaglianze insite nel nostro sistema di welfare. Questo accade perché, secondo un’ottica comparata “non tutti i gruppi sociali sono a rischio nello stesso modo. Laddove il welfare ha un’impostazione categoriale, nel senso che definisce l’accesso ai benefici sulla base della categoria sociale a cui si appartiene (e.g. lavoratori/disoccupati, dipendenti/lavoratori autonomi o di alcuni settori economici specifici, famiglie numerose/single, etc.), i rischi vengono distribuiti in modo diverso rispetto ai paesi che hanno forme di welfare universale. L’Italia ha una forma di welfare marcatamente categoriale: a differenza di tutti gli altri paesi europei (tranne la Grecia) non ha avuto una misura di sostegno universale al reddito fino all’introduzione del Reddito di Inclusione (dal 2017), poi ampliato e in parte modificato dal Reddito di Cittadinanza. Entrambe le misure, però, sono ancora lontane, per estensione e importi, dalle forme di sostegno al reddito in vigore nella maggioranza degli altri paesi europei”.
Quale analisi si può fare, per iniziare, sugli ammortizzatori sociali messi in campo dal Governo?
“Gli interventi di protezione sociale del Governo hanno cercato di compensare – confermando l’abituale frammentarietà delle politiche sociali italiane – alcune delle situazioni emergenziali più difficili (e.g. bonus per lavoratori autonomi, dipendenti con cassa integrazione e blocco dei licenziamenti per 60 giorni, sostegno alla sussistenza attraverso i Comuni, sostegno finanziario alle imprese attraverso le banche, etc.). Malgrado negli ultimi decenni siano stati fatti passi avanti importanti nell’omogeneizzazione dei criteri (si pensi alle pensioni o all´indennità di disoccupazione), il problema delle diseguaglianze tra “inclusi” ed “esclusi” non è ancora superato (per esempio, il decreto “milleproroghe” annualmente promuove micro-interventi settoriali e particolaristici, che non hanno una ratio comune). Non è un caso che l´Italia è in Europa uno dei paesi che – pur avendo una spesa sociale vicino alla media europea – ha una capacità redistributiva molto limitata”.
Può spiegarci meglio cosa si intende con “categorialità” del welfare?
“Le singole misure di welfare individuano sempre, nella loro architettura istituzionale, categorie di beneficiari. Più i criteri identificano tipologie di popolazione diverse (comunità redistributive), più c’è il rischio che questo non rifletta situazioni di reale bisogno, ma piuttosto il potere negoziale delle categorie stesse. I gruppi sociali più vulnerabili sono anche quelli che hanno meno possibilità e capacità di negoziare. Proprio per questo bisogna guardare al welfare come a uno strumento di stratificazione delle società. Ogni paese ha un’architettura istituzionale differente, che segue principi regolativi differenti. In questo senso, politiche diverse stratificano le società in modo diverso focalizzandosi su alcuni problemi, alcuni gruppi o bisogni, e lasciandone fuori altri. La crisi attuale esaspera le disuguaglianze prodotte da questa stratificazione, laddove la categorizzazione e le differenze di trattamento sono storicamente più radicate”.
Perché, cosa sta succedendo?
“L’eccezionalità della situazione estremizza le disuguaglianze e fa emergere le difficoltà in modo più netto. Prendiamo ad esempio la categoria dei lavoratori autonomi che in Italia è estremamente varia: sappiamo che c’è una quota importante di evasione fiscale[1] tra i lavoratori autonomi, ma c´è anche una larga quota di precarietà crescente che è costretta ad accettare un inquadramento “autonomo”. Per questi ultimi la situazione attuale è particolarmente problematica e ne ha esasperato la vulnerabilità. Anche coloro per i quali le attività sono aumentate, non necessariamente sono in una situazione migliore. Si pensi ai rider che consegnano pasti e spesa a domicilio: le tutele e la sicurezza sul lavoro sono quanto meno dubbie. Chi lavora nella ristorazione e nel turismo è in una condizione drammatica: si pensi che in alcuni paesi come la Grecia questo settore contribuisce per circa il 20% del PIL, quindi possiamo già immaginare l´impatto socio-economico terribile che la situazione attuale avrà questa estate. In Italia è poco meno del 14% e anche qui l´impatto sarà significativo”.
Le misure emergenziali cosa fanno emergere?
Le misure emergenziali sono un tentativo di trovare una soluzione agli effetti drammatici che le diseguaglianze di trattamento e sostegno producono in una situazione estrema come quella attuale. In una situazione “normale” queste diseguaglianze vengono compensate dalla presenza di entrate economiche. Tuttavia queste entrate, pur risolvendo il problema nel presente, spostano il problema verso il futuro. Si pensi ai giovani e alle crescenti forme contrattuali precarie che essi accettano pur di trovare un lavoro, e che produrranno povertà quando queste persone raggiungeranno l’età pensionabile. La maggior parte di queste forme di precariato è diventata insostenibile già oggi, minando la certezza delle entrate contingenti. La crisi mette quindi il governo di fronte a un dilemma: da una parte intervenire in maniera puntuale su alcune categorie per compensare la diseguale distribuzione delle risorse; dall´altra utilizzare questa opportunità di intervenire strutturalmente sul design istituzionale del welfare italiano e riequilibrare la situazione. Non è semplice, considerando la storia delle politiche sociali italiane e come si sono stratificate nel tempo e la loro path dependency”.
Che cosa intende? Cosa sono le path dependency?
“Nelle scienze sociali, il concetto di path dependency indica la difficoltà a modificare un particolare assetto istituzionale o comportamento che si è cristallizzato nel tempo. Questo esprime un certo equilibrio tra rapporti di forza di gruppi sociali diversi con interessi diversi, che generano istituzioni e misure di intervento peculiari non necessariamente volte al bene pubblico e alla massima utilità per tutti, anzi”.
Può aiutarci a capire meglio questo concetto?
“Il fatto che in un momento storico risultino tutelati certi gruppi rispetto ad altri indica che, in seno alle rappresentanze degli interessi e tra gli attori sociali più significativi, si sono cristallizzati certi equilibri nei rapporti di forza, che si sono tradotti in misure specifiche sul piano legislativo. Una volta, per esempio, la Cassa Integrazione poteva essere utilizzata solo dagli operai delle grandi imprese del settore industriale. Un esempio più recente è la proposta di un “reddito di emergenza” per una fascia specifica di popolazione che ha perso il proprio reddito in settori particolarmente vulnerabili. Il reddito di emergenza è una “pezza” temporanea che, però, induce la domanda: è bene avere un reddito minimo, una rete ultima di supporto che includa tutte le persone in condizioni di bisogno economico? Che caratteristiche deve avere? Le misure emergenziali dovrebbero stimolare una riflessione sulla necessità di andare verso un approccio più universalistico e più adeguato. Per esempio: ampliare la platea di aventi diritto delle misure che già esistono a tutta la popolazione ed erogare somme più adeguate per far fronte alle difficoltà. Per darle un´idea a Vienna dove vivo una coppia in condizioni di bisogno economico riceve 1.376€ fintanto che la condizione di bisogno persiste. In Italia? Per il REI erano 294€ per un massimo di 18 mesi; il reddito di cittadinanza che lo ha sostituito, ha aumentato l´ammontare a 1.092€. Che un reddito minimo serva è innegabile e in tutti i paesi europei una qualche forma di sostegno al reddito esiste. Ma “il diavolo sta nel dettaglio” ed è lì che bisogna guardare per capire il grado di inclusività della misura: il design istituzionale definisce chi ne ha diritto, per quanto tempo, a quali condizioni e se la misura è accompagnata da misure attive e se è adeguata o meno a far fronte ai costi di vita in un determinato contesto. Se si studia in termini comparati il reddito minimo universale nei vari paesi europei emergono differenze proprio su questi punti. Paesi che hanno misure più universali ed inclusive intervengono ora ad altri livelli, cercando di evitare che la popolazione cada in una situazione di bisogno economico. In Italia sarebbe necessario un cambiamento culturale!”
Perché ci vuole un cambiamento più complessivo e non solo riforme strutturali?
“Ci vogliono sia riforme strutturali, sia cambiamenti culturali. Sulla spinta di cambiamenti socio-economici profondi, l’Italia ha fatto passi importanti durante gli ultimi vent’anni nell’universalizzare le proprie misure. La cassa integrazione negli anni ’80 escludeva una larghissima parte di lavoratori, oggi include molte più categorie. I soggetti coinvolti nel processo decisionale su queste misure, partiti, sindacati, gruppi di imprenditori, si accordavano per mantenere una posizione di difesa di un numero limitato di lavoratori mentre il sistema produttivo cambiava. Questo avveniva per diversi motivi: chi per approfittare di nuove aree del mercato del lavoro deregolamentate, chi per preservare il legame identitario sui cui era fondata la sua legittimità a rappresentare gli interessi dei lavoratori, in ogni caso si produceva un equilibrio che trovava riscontro nelle politiche sociali. Con la disoccupazione strutturale emersa negli anni ’90, la situazione è divenuta così insostenibile che si sono dovute accettare forme parziali di estensione delle tutele. Anche adesso ci troviamo in una situazione di questo tipo, di insostenibilità strutturale di alcune misure, quindi il legislatore deve in qualche modo pensare a un ridisegno che superi i limiti delle soluzioni emergenziali, che si rivelano quasi sempre inefficaci nel lungo periodo. Si prenda il lavoro nero e precario che ha costituito un elemento fondante di molta parte dell’economia italiana, per esempio nell’industria agroalimentare. Lo sfruttamento di manodopera immigrata stagionale è ora insostenibile e rivela – per chi ancora non se ne fosse accorto – una debolezza strutturale del modello italiano e una costante esternalizzazione dei costi sociali sui più deboli. L´auspicio è che queste situazioni vengano affrontate considerando le ingiustizie che la differenziazione delle tutele ha prodotto. Prosperare sulla vulnerabilità è una dinamica tipica del sistema capitalista. Tuttavia, altri paesi capitalistici hanno avuto più successo nel contenere le diseguaglianze e non è casuale che siano quelli in cui l´accesso alle prestazioni di welfare è più equo, meno frammentato nel design istituzionale e più generoso. ”.
Come possono intervenire sulla riduzione di queste disparità le politiche sociali?
“Sicuramente tenendo conto di tutto quello che era invisibile alle istituzioni ma non era certo invisibile al sistema economico e produttivo: includendo chi era escluso. Tra i numerosi esempi in Italia pensiamo al mercato abitativo e al lavoro di cura. In questi due ambiti ci sono croniche debolezze italiane e sempre più voci propongono al governo soluzioni emergenziali per intervenire subito. Il Forum Disuguaglianze ha recentemente fatto una proposta di blocco degli affitti e di accesso facilitato al credito per i proprietari il cui reddito dipende principalmente dall’affitto pagato da un solo inquilino. Chiara Saraceno ha segnalato la scomparsa del lavoro di cura dalle misure del governo e la difficile condizione di quelle lavoratrici e lavoratori. Il problema dell’abitazione viene esasperato ora perché molte persone perdono il lavoro e non riescono più a pagare l’affitto e in Italia non c’è un programma di edilizia popolare. E anche nelle città dove c´era un patrimonio abitativo pubblico, questo è stato alienato con ampi processi di privatizzazione negli ultimi decenni. La questione della cura è esasperata perchè non c’è un sistema di cura pubblico capillare e di qualità: l’Italia sopravvive con la privatizzazione del lavoro di cura (si pensi alle badanti) che porta a una sua dequalificazione e precarizzazione. Le soluzioni emergenziali devono poi trovare uno sbocco in riforme del sistema nel suo complesso.
Come si collocano queste peculiarità italiane nel panorama internazionale?
Se confrontiamo l´Italia con altri paesi europei, come la Germania o l’Austria – che appartengono secondo la prospettiva del sociologo Esping-Andersen allo stesso modello di welfare – vediamo che nonostante alcune somiglianze, le differenze sono importanti. Uno degli elementi comuni è l´importanza culturale (e non solo) della famiglia. Nel momento in cui, però, andiamo a vedere l´architettura istituzionale delle politiche sociali più nel dettaglio, le differenze sono importanti. In Italia, per esempio, è molto difficile conciliare lavoro e famiglia: mancano i servizi all´infanzia che permetterebbero alle madri di lavorare, i padri raramente prendono i congedi di paternità e in generale la famiglia – pur considerata valore fondamentale della società – non è concretamente supportata con servizi o erogazioni monetarie. In Germania e in Austria – dove l’elemento redistributivo delle politiche è più forte – viceversa, le famiglie vengono sostenute concretamente con servizi e politiche di sostegno economico. A Vienna, 1.800.000 abitanti, il 44 % dei residenti abita in una “casa popolare” con affitti agevolati. L’accesso all’edilizia popolare si ha con un reddito inferiore ai 3000 euro al mese per nucleo familiare e il reddito minimo garantito individuale è di 917 euro al mese. L’Austria ha un Indice di Gini – l´indicatore che misura la diseguaglianza nella distribuzione delle risorse – molto basso rispetto ai redditi da lavoro. A fronte di una media EU di 30,8 l´Austria ha un valore pari a 26,8 e l´Italia a 33,4.
A quale livello territoriale si deve intervenire? Il Comune, la Regione, lo Stato nationale o l’Europa?
L´attuale pandemia è un esempio di come i problemi dei sistemi sanitari investano molteplici livelli territoriali, da quello locale a quello sovranazionale. Lo stesso vale per la crisi ambientale e per il cambiamento climatico nonché – crescentemente – per tutti gli ambiti di policy, dall´economia alla ricerca… La risposta è quindi: i problemi si dovrebbero affrontare in modo coordinato a tutti i livelli. Se il welfare è la socializzazione del rischio, in Europea oggi è necessario socializzare il rischio in uno spazio più ampio di quello nazionale. Questo vale anche perché ci sono ambiti sovranazionali che hanno già acquisito rilevanza transnazionale, dall´Euro alle regole di bilancio, alla mobilità delle persone con carriere lavorative transnazionali, etc. etc. Le differenze esistenti tra i paesi nell´architettura istituzionale delle politiche sociali rendono questo passaggio difficile, come anche i diversi principi regolativi che informano le politiche stesse. Il mio auspicio è che di fronte a una crisi drammatica come quella attuale si riconosca la necessità di ripensare il design istituzionale delle politiche in un quadro più ampio, almeno per garantire ai gruppi sociali più vulnerabili condizioni di vita adeguate. Le direttive europee in merito esistono già dagli anni novanta!
Abbiamo introdotto il tema del livello territoriale delle politiche. Che valutazione si può fare sul livello europeo?
L´Unione Europea – che nasce con il Trattato di Maastricht nel 1993 – ha tra i principi fondativi il principio di sussidiarietà (art. 5) che prevede un´articolazione territoriale delle politiche più vicina possibile al cittadino. Questo implica che l´Unione Europea interviene solo se la sua azione è considerata più efficacie di politiche attuate a giurisdizioni inferiori (comuni, regioni, stati nazionali,…). Al momento l’Europa, interviene più in ambito economico-finanziario che non politico-sociale, almeno non direttamente. Indirettamente i vincoli macro-economici costituiscono vincoli importanti anche per le politiche sociali perché ne influenzano il livello di finanziamento possibile. Le pressioni per cambiare verso un’Europa dei diritti sociali e basata su di una politica fiscale comune aumentano, ma siamo ancora molto lontani dalla loro realizzazione. Il deficit di rappresentanza democratica dell´Unione Europea nel suo design istituzionale, inoltre, rende il processo alquanto contorto e complesso. La situazione attuale, però, potrebbe essere un´occasione per mostrare il valore aggiunto di azioni di solidarietà coordinata sovranazionali. Non dovrebbe essere, tuttavia, solo un intervento emergenziale, ma tradursi nella consapevolezza che insieme si affrontano i problemi più efficacemente. Non solo economicamente ma anche dal punto di vista del coordinamento sanitario, della ricerca scientifica e sociale. Ho difficoltà ad immaginare paesi come l´Italia con un crollo del 9,5% del PIL riescano da soli ad affrontare tutti i problemi che la situazione implica.
Che significato assume il concetto di “sussidiarietà”? In che rapporto è con i diversi livelli territoriali delle politiche sociali?
Un aspetto del principio di sussidiarietà sottovalutato nel dibattito è quello relativo all´adeguatezza di uno specifico livello territoriale per il raggiungimento di specifici obiettivi politici. Costruire, per esempio, politiche sociali affidando responsabilità regolative e finanziarie ad attori che possono operare solo su livelli micro può funzionare per alcuni ambiti, meno per altri. Se, per esempio, vogliamo ridurre le diseguaglianze e attuare politiche redistributive, il livello locale non è adeguato, anche se dipende dalla scala territoriale rispetto alla quale vogliamo livellare le diseguaglianze. È la regione? Il livello nazionale? O addirittura quello Europeo? È un argomento controverso. La sussidiarizzazione delle politiche sociali ha caratterizzato orientamenti politici tra i più disparati. Tutti erano a favore della sussidiarietà anche se poi quello che praticamente facevano era molto diverso, con un impatto molto differenziato sulla responsabilizzazione dei livelli più prossimi al cittadino. Per capire meglio le dinamiche territoriali ho proposto il concetto di sussidiarietà passiva e sussidiarietà attiva. Per sussidiarietà passiva si intende una delega di funzioni ad attori territoriali decentrati (e.g. lo stato alle regioni o le regioni ai comuni) senza però trasferire loro le risorse necessarie per affrontare i problemi che dovrebbero risolvere. La regionalizzazione dei sistemi sanitari in una situazione come quella attuale sembra produrre effetti disfunzionali. D’altra parte, se non abbiamo modelli di intervento legati ai territori non riusciamo a gestire la fase di convivenza con il virus in modo contestualmente significativo. Lo stesso vale per qualsiasi altra politica sociale, che va contestualizzata. Tuttavia, regionalizzare o nazionalizzare modelli regolativi è, da questa prospettiva, un falso problema: ad ogni livello esistono specifiche competenze e capacità di governo, senza le quali il sistema non potrebbe funzionare. Un sistema dev´essere in grado di adattarsi alle specificità dei territori senza sacrificare equità e giustizia redistributiva. Quindi, ben vengano processi decentrati, ma in un quadro fortemente coordinato, in cui alle responsabilità facciano fronte risorse adeguate e criteri di accesso e delle prestazioni che riequilibrino le diseguaglianze: forme di sussidiarietà attiva. Sarò ingenuo e nostalgico, ma la LN328/00 è stata in Italia una legge estremamente ambiziosa e raffinata che abbiamo sacrificato troppo presto.
Quali sono le soluzioni “tecniche” possibili?
Le politiche possono avere un´architettura istituzionale molto varia e prevedere diversi modelli di intervento e diversi principi regolativi. Possono essere politiche passive che basano i criteri di accesso sul versamento di contributi. Su queste – che sono organizzate prevalentemente a livello nazionale – l´Italia ha caratteristiche frammentate che richiedono aggiustamenti di rotta. Ci sono poi politiche attive fortemente contestualizzate, organizzate più a livello locale. Le due opzioni non sono in contrasto, ma tra loro complementari. Le misure emergenziali degli ultimi mesi non sono contributive ma si finanziano per lo più con la fiscalità generale e costituiscono sicuramente un´importante intervento, tuttavia l´inclusività dev´essere istituzionalizzata. Avere un´ultima rete di sostegno è certamente fondamentale in questa situazione perché comunque contribuisce alla stabilizzazione dei consumi, evitando crisi che si autoalimentano eccessivamente. Tuttavia, come dicevamo, alle fondamentali forme di tutela passiva vanno affiancate misure attive sensibili alle esigenze contestuali e che coinvolgano i fruitori nella costruzione del percorso stesso attraverso forme partecipate. Quest´ultimo aspetto ci dice che non esistono solo soluzioni “tecniche”, ma è necessario equilibrare anche elementi partecipati e per questi ci vuole un dibattito democratico sulle misure… con un pubblico formato e consapevole. È una sfida non indifferente, perché oggi siamo di fronte a cambiamenti profondi. Se non vogliamo che tutto torni come prima, bisognerà ripensare molta parte dei nostri sistemi di welfare, la loro frammentazione, le diseguaglianze che producono e consolidano e guardare oltre la loro dipendenza da modelli di crescita insostenibili…sia dal punto di vista sociale sia dal punto di vista ambientale.
[1] Si veda il rapporto della Commissione Giovannini http://www.dt.mef.gov.it/modules/documenti_it/analisi_progammazione/documenti_programmatici/def_2019/Allegato_NADEF_2019_Relazione_evasione_fiscale_e_contributiva.pdf