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Una direttiva su “adeguati redditi minimi” è indispensabile per realizzare la sostenibilità sociale del modello di sviluppo del vecchio continente

di Giuseppe Bronzini

 

1. Il contrasto del rischio di esclusione sociale e la riduzione della povertà attraverso la piena  garanzia di quello specifico diritto che nei paesi occidentali più avanzati socialmente viene denominato come “reddito minimo garantito” costituisce uno degli aspetti centrali delle policies dell’Unione europea negli ultimi trent’anni ([1]). Si iniziò con una Raccomandazione del 24 giugno 1992, poco prima la sottoscrizione del Trattato di Maastricht, che ancora fissa le caratteristiche essenziali di questa prestazione rivolta ad assicurare a tutti i cittadini degli stati membri una vita libera e dignitosa attribuendo, a coloro che non dispongono di risorse sufficienti, un sostegno monetario([2]), nonché forme di aiuto indiretto per i bisogni primari (come tariffazioni agevolate per i servizi essenziali), contributi per  il riscaldamento, i trasporti e per le cosidette spese impreviste. La Raccomandazione è stata reiterata nel 2008, in piena crisi economica internazionale, in termini ancor più stringenti  per indurre gli stati al mantenimento delle politiche di riduzione del tasso di povertà assoluta e relativa nonostante l’emergenza economica. Il Parlamento europeo ha, a sua volta, adottato nel tempo Risoluzioni sul reddito minimo molto avanzate (la più nota nell’Ottobre del  2010), sviluppando in senso garantista gli orientamenti e gli sforzi della Commissione e chiedendo che tutti gli stati venissero instradati nelle best practises realizzate da alcuni paesi (soprattutto scandinavi) nella configurazione del diritto sociale ad un minimo vitale (che la letteratura sull’argomento ha chiamato ius existentiae). Si è chiesto di  evitare forme di sostegno inadeguato o modalità di  stigmatizzazione (anche indiretta) della figura dei sussidiati o, ancora, non  collegate a reti pubbliche  efficienti di sostegno e promozione delle persone; si è insistito per effettivi incentivi come l’offerta di opportunità  occupazionali  “congrue”, cioè coerenti con il bagaglio professionale dei soggetti,  per il rientro nel mercato del lavoro o con il mantenimento per un periodo del sussidio, si da evitare il fenomeno del “ poverty entrapment” nel quale rischiano di cadere persone  a lungo escluse dalle dinamiche sociali  attive; si è evidenziato che un sostegno va attribuito anche a chi già lavora, ma da questa attività non riesce a trarre mezzi di vita idonei (il fenomeno dell’in-work poverty).

2. Con  la proclamazione  della Carta dei diritti nel dicembre del 2000 a Nizza (divenuta poi obbligatoria con l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona l’ 1.12.2009) la pretesa ad un reddito minimo garantito è stata “costituzionalizzata” all’art. 34 terzo comma ([3]) in quanto oggi costituisce uno dei  fundamental rights che l’Unione “ riconosce” ai sensi del Preambolo della stessa Carta, il cui “ contenuto essenziale” il diritto o le decisioni ascrivibili all’Unione non possono comprimere e neppure gli stati membri laddove applichino le disposizioni di questa. Anche se sino ad oggi l’UE non ha adottato una normativa vincolante sul punto, certamente la legislazione sovranazionale deve già  rispettare e non compromettere l’esigibilità di tale diritto negli stati membri i cui tratti salienti emergono chiaramente dalla norma: l’attribuzione alle persone in difficoltà (che non hanno risorse sufficienti) di un reddito monetario periodicamente corrisposto per coprire i bisogni essenziali (tra i quali quelli a carattere abitativo) si da condurre una vita decorosa. Anche nell’ambito dell’ordinamento del Consiglio d’Europa la pretesa è stata consacrata negli artt. 30 e 31 della Carta sociale europea (rilevanti sembrano anche gli artt. 12 e 13), così come aggiornata a Torino.

Sulla base della costituzionalizzazione del reddito minimo l’UE ha però avviato  già nel 2000 un’opera di coordinamento tra i vari sistemi di reddito minimo nazionale cercando di renderli più efficaci, inclusivi ed anche di generalizzarne l’adozione. Nell’ambito del cosidetto “metodo aperto di coordinamento”  (MAC) cioè di un sistema di soft law nei settori sociali (soprattutto di welfare) nei quali l’Unione o non ha competenza legislativa o ritiene di non doverla usare  si è avviato un confronto serrato tra stati membri e Commissione (molto seguito anche dal Parlamento) per verificare quali fossero le migliori pratiche da seguire nel contrasto del rischio di esclusione sociale cercando  meccanismi di monitoraggio e valutazioni condivise per affrontare il fenomeno e per promuovere le soluzioni più avanzate ed efficaci in concreto. La stretta sugli stati sul reddito minimo si è accentuata allorché l’obiettivo della riduzione di un  quinto dei cittadini europei a rischio di esclusione sociale (20 milioni) è diventata uno degli obiettivi della Strategia 20-20 e quando, più tardi, gli indicatori di povertà sono entrati a far parte dei social scoreboard indicators  nella sorveglianza macroeconomica sui paesi membri, nel  cosidetto semestre europeo.

L’European social Pillar proclamato a Göteborg in Svezia nel 2017 che dovrebbero guidarci verso un’Europa sociale forte, equa, inclusiva e piena di opportunità per il XXI secolo ha opportunamente precisato la garanzia sociale dell’art. 34 della Carta di Nizza  nel senso che “ chiunque non disponga di risorse sufficienti ha diritto ad un adeguato reddito minimo che garantisca una vita dignitosa in tutte le fasi della vita e l’accesso ai beni e servizi. Per chi può lavorare il reddito minimo dovrebbe essere combinato con incentivi al (re)inserimento nel mercato del lavoro” (diritto/principio n. 14). Nella nuova formulazione vengono in rilievo l’ adeguatezza delle prestazioni dovute (in vista del raggiungimento dello scopo dell’istituto che è quello di assicurare una vita decorosa a tutti), l’aggancio tra sussidio monetario e fornitura agevolata di beni e servizi essenziali e la predisposizione di incentivi per far si che il rientro nel mercato del lavoro sia vantaggioso per la persona, in una logica promozionale e non coercitiva.

3. Questo lungo e complesso cammino istituzionale per l‘introduzione del reddito minimo nei territori dell’Unione, nel quadro di una battaglia di civiltà contro la povertà e l’esclusione sociale, è stata un’impresa coronata di notevoli ed insperati  successi, nonostante si sia servita in gran parte degli strumenti di soft Law  come le Raccomandazioni sia pure connesse a Testi di rilievo costituzionale come la Carta dei diritti. Nel quadro della governance macroeconomica  sovranazionale effettivamente negli ultimi anni la pressione di Bruxelles perché si  riducesse il tasso nazionale di povertà secondo gli indici europei si è fatto molto pressante e in varie occasioni si è suggerito l’adozione di sanzioni indirette come l’esclusione dei paesi renitenti (capitanati sino al 2017 dall’Italia) dai fondi di coesione. Nel 2019 con l’introduzione anche in Italia del reddito di cittadinanza, che è una forma di realizzazione dell’istituto del reddito minimo garantito coperto dalla Carta dei diritti e dalle Raccomandazioni,  anche gli ultimi paesi restii ad accettare le indicazioni europee  (Italia e Grecia) si sono arresi ed oggi tutti i 27 stati membri hanno schemi operanti di tutela della dignità essenziale delle persone: il reddito minimo può finalmente dirsi una tradizione costituzionale comune. Gli organi sovranazionali hanno saputo rendere “virtuosi” gli stati (anche se con gradi di virtuosità  diversissimi)  grazie anche ad una narrazione fortemente evocativa  della semantica dei diritti fondamentali ed in particolare del meta-diritto che ne costituisce il collante e la base ultima: la tutela della dignità essenziale della persona. A questa narrazione costituzionale i Testi e gli atti europei(pur non obbliganti) hanno aggiunto la forza espressiva della filosofia influente  che è stata prescelta per illuminare le policies sociali UE e cioè la teoria della capabilities di Amartya Sen e la scuola della fioritura umana che certamente non tollera che si lasci gli ultimi a marcire nella miseria e nei  ghetti della post-modernità.

Ma questa può dirsi solo una preistoria della lotta alla povertà che non è stata piegata e sradicata ma solo limitata in U.E. L’obiettivo della strategia 20-20 non è stato raggiunto e quello nuovo (per il 2030) della riduzione di 15 milioni del numero di persone a rischio esclusione sociale appare problematico per quanto sia più realistico. Inediti problemi affettano la società europea e i processi produttivi continentali che il recente Report di un gruppo di esperti nominato dalla Commissione europea ([4]) ha chiamato megatrends che possono costituire fattori  di emarginazione sociale e povertà come una crescente ageing population, le nuove forme del lavoro (circa il 40% dei lavoratori UE hanno contratti atipici di cui il 14% sono lavoratori indipendenti, in genere esclusi dalle protezioni tipiche del lavoro dipendente e con un accesso molto limitato al welfare state), l’impatto delle nuove tecnologie (che sembrano portare ad un maggiore dualismo tra le personale qualificato o meno e portare ad una più forte ed imprevedibile discontinuità nei percorsi di lavoro).

Proprio la Commissione ha ritenuto nel suo Action Plan di l’attuazione del Social Pillar del Marzo del 2021 di prevedere una nuova Raccomandazione sul reddito minimo nonostante le reti associative europee che seguono il tema della lotta alla povertà (come l’Eapn) abbiano da tempo suggerito l’adozione di una Direttiva, così come affermato anche dal Comitato economico sociale ([5]) nel 2018 perché la situazione in UE- pur avendo visto molto miglioramenti anche in virtù di provvedimenti emergenziali per fronteggiare la crisi del Covid- appare sempre preoccupante, soprattutto in alcuni paesi non solo di recente adesione, ma membri da tempo come la Spagna e la Grecia o  addirittura fondatori come l’Italia.

Abbiamo già avuto modo di trattare in questo sito  la proposta di Raccomandazione della Commissione europea del 27 settembre 2022 oggi sostanzialmente trasfusa nella Raccomandazione del Consiglio del 30 gennaio 2023 ([6]): la ricostruzione offerta dalla Commissione è piuttosto impietosa dimostrando come le caratteristiche essenziali della misura di cui all’art. 34 della Carta siano dalla maggioranza degli stati non rispettate, soprattutto sul punto dell’adeguatezza, dell’individualizzazione della protezione,  del rispetto della dignità e decoro delle persone assistite, non supportare da reti di appoggio ed indirizzo pubblico anche in ordine all’offerta di lavori dignitosi, capaci di durare nel tempo e coerenti con le aspettative individuali e le competenze acquisite. In effetti la proposta ed oggi la Raccomandazione sono piuttosto energiche nell’indicare agli stati la via da perseguire per combattere la mala pianta dell’emarginazione sociale. Tuttavia il Parlamento europeo ha approvato, con una maggioranza piuttosto ampia, il 15 marzo del 2023 una secca ed impegnata Risoluzione ( P9_TA (2023)0076) relativa a un adeguato reddito minimo che garantisca l’inclusione attiva. La Risoluzione parte da un agghiacciante dato: nel 2021 nell’UE 95,4 milioni di persone erano a rischio di povertà o di esclusione sociale (misurate dal tasso AROPE, condiviso a livello europeo) il che equivale al 21,7% della popolazione Ue. Rileva poi il Parlamento che

“attualmente, in tutti gli Stati membri sono in vigore vari tipi di regimi di reddito minimo, ma che il loro impatto non è stato sufficiente in termini di convergenza verso l’alto o di riduzione della povertà; che ogni paese europeo ha fissato i regimi a un livello inferiore alla propria soglia del rischio di povertà (AROP) e che alcuni di questi regimi non raggiungono nemmeno il 20 % della soglia AROPE, il che significa, in pratica, che i beneficiari del reddito minimo non hanno un introito sufficiente per arrivare a fine mese; che gli Stati membri hanno compiuto progressi disomogenei nel garantire l’adeguatezza, la copertura e l’adozione dei regimi di reddito minimo, nonché nell’attuare misure di attivazione del mercato del lavoro e misure che consentono l’accesso ad altri beni e servizi abilitanti; che i tassi di utilizzo dei sussidi sono bassi e che manca coordinamento tra sostegno al reddito, politiche attive del mercato del lavoro e servizi sociali; che i regimi di reddito minimo nazionali fanno parte di sistemi di protezione sociale più ampi e che questo aspetto dovrebbe essere considerato all’atto di valutare l’efficacia di tali regimi”.

Si aggiunge che “i meccanismi di coordinamento delle politiche utilizzati negli ultimi 30 anni, quali la raccomandazione del Consiglio, del 24 giugno 1992, in cui si definiscono i criteri comuni in materia di risorse e prestazioni sufficienti nei sistemi di protezione sociale, rafforzati dalla raccomandazione della Commissione, del 3 ottobre 2008, relativa all’inclusione attiva delle persone escluse dal mercato del lavoro, non si sono dimostrati sufficientemente efficaci per far fronte alle sfide individuate e ridurre l’esclusione sociale e la povertà in modo incisivo, integrato e sostenibile; che negli ultimi anni la maggior parte degli Stati membri ha adottato misure per migliorare i propri regimi di reddito minimo, in combinazione con altre politiche sociali, che tuttavia si sono rivelate inadeguate a far fronte alle sfide individuate; che le riforme a livello nazionale non sono state sufficientemente esaustive e che la loro attuazione è stata spesso tardiva; che i dati evidenziano che negli ultimi decenni si è registrato un aumento delle disparità di reddito in diversi Stati membri e che l’esclusione sociale continua a essere una sfida importante”.

Pertanto il Parlamento (punto n. 20) invita esplicitamente la Commissione a

“considerare come ulteriore misura dell’UE, a seguito della Raccomandazione del Consiglio, una direttiva relativa a un reddito minimo adeguato, al fine di garantire il reinserimento delle persone assenti dal mercato del lavoro, nel rispetto del principio di sussidiarietà, delle specificità dei sistemi nazionali di protezione sociale e delle competenze degli stati membri”.

Quindi serve una direttiva perché  gli stati non rispettano in genere né i parametri quantitativi della misura (secondo il Report dell’High level di esperti della Commissione già citato si oscilla tra la copertura tra il 5% ed il 40% della media nazionale reddituale, quindi in alcuni paesi il reddito erogato è  platealmente inidoneo a condurre una vita decente). Inoltre le soglie di copertura (take- up) della misura è troppo bassa (meno della metà degli aventi diritto) anche per le modalità stigmatizzanti e coercitive che vi sono connesse o requisiti troppo stretti o irrazionali dal punto di vista selettivo; le occasioni di lavoro sono dequalificanti, l’ insufficienza delle reti di sostegno in alcuni paesi appare cronica così come i controlli e la gestione dei sussidi invasivi ed odiosi, le tariffazioni agevolate per l’accesso a servizi di carattere essenziale valgono solo per alcuni stati (in genere del Nord-europa), la protezione su base familiare conduce a trascurare alcuni membri di questa come le donne o i giovani.

Non ultimo gli stati possono sempre regredire nei livelli acquisiti perché gli standard da rispettare sono contenuti solo in atti di soft law , anche se fortemente presidiati dalla Commissione e da un consolidato sistema di monitoraggio. E’ proprio il caso della paventata riforma del reddito di cittadinanza in Italia con la quale si dovrebbe ridurre l’importo del sussidio, verrebbe limitata l’accessibilità a famiglie con ISEE inferiore a quello giudicato pertinente sino ad oggi, verrebbe aggredito il principio di congruità nelle occasioni di lavoro obbligatoriamente da accettare per i soggetti  che possono operare attivamente, il tutto per conseguire risparmi di qualche miliardo.

Ricordiamo che la CoFoe (Conferenza su futuro dell’Unione) aveva chiesto un “ quadro comune” per la lotta contro il rischio di esclusione sociale, proprio per evitare quello che rischia di accadere a breve nel “bel paese”.

4.  Ora le decisione fatta circolare dal Commissario per il lavoro e i diritti sociali Nicolas Schmit, in questi anni grande motore del processo di intensificazione del legame sociale tra i cittadini europei e di attuazione del social Pillar, della Commissione di non recepire la richiesta del Parlamento europeo ma di concentrarsi nel monitoraggio della Raccomandazione del 30 gennaio 2023 è molto deludente e rischia di indebolire (e di oscurarne il progetto) di questa fase di rilancio dell’Europa sociale (nel segno dei valori, diritti e principi della Carta dei diritti). E’ vero che nella proposta della Commissione si sottolineava che i paesi renitenti nel seguire le indicazioni sovranazionali sulla lotta al rischio di esclusione sociale e che dovessero mostrare dati preoccupanti nella gestione del fenomeno, potrebbero essere anche esclusi, come extrema ratio, dai fondi di coesione, ma questa soluzione è si è mostrata sempre troppo politicamente delicata per essere davvero perseguita, soprattutto se a trasgredire fosse un nutrito gruppo di stati membri. Una direttiva peraltro permetterebbe  di diffondere ed armonizzare tutti i contenuti necessari per un provvedimento per salvaguardare la dignità essenziale dei cittadini europei: quantitativi e valutativi. Sotto le regia di una Corte, come quella di giustizia, saggia ed imparziale, questi contenuti, in collaborazione con le Corti nazionali potrebbero nel tempo essere precisati e resi esigenti negli stati membri (in coerenza con il sistema dei diritti definito nella Carta di Nizza) senza diventare un diktat politico- amministrativo. Troppi aspetti sensibili, legati al rispetto della personalità degli assistiti, meritano di essere sottoposti all’attenzione di una Corte dalla vocazione costituzionale senza aspettare una reazione della Commissione al proliferare di nuovo eserciti di poveri nel vecchio continente. Le tre Raccomandazioni varate nel tempo (1992, 2008, 2023) e le varie Risoluzioni del Parlamento forniscono un materiale più che sufficiente (e condiviso da anni nell’ambito del Metodo aperto di coordinamento) per una direttiva sui contenuti essenziali degli schemi di reddito minimo nazionali.

Sembrerebbe che la Commissione dubiti della chiara sussistenza di una base giuridica per questo “salto” visto che l’art. 153 lettera h) parla di “integrazione delle persone escluse dal mercato del lavoro”  e la lettera c) di “sicurezza sociale e protezione sociale dei lavoratori”. La lettera  J) del 153 sulla “lotta contro l’esclusione sociale” non consente l’adozione di direttive sui trattamenti minimi. Tuttavia le prime due ipotesi vanno (come ritenuto dal Comitato economico- sociale) riferite ai “ lavoratori” nel senso della normativa UE sulla sicurezza sociale cioè a persone che possono conseguire uno status lavorativo, non a coloro che già lavorano o sono disoccupati (la lettera h) in effetti parla integrazione di soggetti esclusi dal mercato non di disoccupati o in cerca di prima occupazione). Il regolamento 883/2004 ha già ricompreso (art. 70) nel coordinamento dei sistemi nazionali di sicurezza sociali le prestazioni non contributive relative ai “redditi minimi di sussistenza” per valorizzare la libertà di circolazione dei cittadini europei che si spostano in altri stati (utilizzando una base giuridica diversa da quelle previste oggi nel titolo X) e la clausola finale di salvaguardia (oggi art. 352 TFUE) finendo per seguire Jacques Delors allorché riteneva, nel lontano 1992, che alla fine un regime comune dei tratti salienti dei sistemi di reddito minimo costituisce un collante  sociale necessario per salvaguardare lo stesso mercato unico e le sue costitutive libertà “comunitarie” proteggendolo dal pericolo di social dumping. Quella immaginazione costruttiva costituzionale di cui la Commissione ha fatto un buon uso per la direttiva sul salario minimo andrebbe sperimentata anche per l’istituto che protegge gli europei dalla miseria e dall’emarginazione. Forse è comprensibile che la Commissione, avendo appena promosso l’approvazione di una Raccomandazione, si concentri sull’implementazione di questa, ma i problemi obiettivi e molto gravi denunziati dal Parlamento europeo ben presto la costringeranno a riprendere in mano la “questione legislativa” e cioè l’assenza di regole certe ed esigibili in ogni stato membro a tutela della comune dignità del cittadino europeo.

Giuseppe Bronzini

Segretario generale Movimento europeo

 

Tratto da Movimento Europeo

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