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Una esperienza vissuta e radicata nei corpi

di Cristina Morini

Resterà impresso nella memoria collettiva il fatto che dobbiamo sempre, reciprocamente, riconoscerci come corpi che necessitano cura? E a partire da ciò, riusciremo finalmente a riconcettualizzare la cura del vivente, come anima delle lotte del presente, che va ingaggiata da tutti i membri della società per sovvertire i progetti di presa sulla vita e di governo su di essa?

Da un lato un virus che, come ha scritto con intuizione geniale Laurie Penny, ti sorprende dando all’apocalisse un incredibile profilo domestico: non è una catastrofe nucleare a mettere (forse) alla prova la sopravvivenza della specie umana sul pianeta, ma un microscopico agente patogeno mutante che ti coglie in casa, in vestaglia e pantofole. Dall’altro, uno stuolo di donne che sta gestendo un’emergenza che ha a che vedere con la conservazione della vita messa in pericolo. Ciascuna di noi ha accumulato, in questa fase, la propria personale galleria di immagini e di storie, che confermano quanto sia massiccia la presenza delle donne nella cura e nei servizi. Aggiungo, per chiarezza, che non disconosco, all’interno di questo vastissimo ambito, l’esistenza di gerarchie e di meccanismi (di classe, di razza) che contraddicono una coincidenza degli interessi “di tutte le donne”, né che si possa escludere che gli uomini possano (e debbano) condividere tali compiti e ruoli o sentirsene coinvolti.

Ma non è questo l’aspetto a cui intendo dare rilievo, in questo momento. La vita, la precarietà dell’esistenza, la vulnerabilità, sono diventati l’essenza, mettendo in evidenza l’importanza di pensare e praticare un materialismo dove l’esperienza sia direttamente “vissuta e radicata nei corpi” (Rosi Braidotti). L’epidemia di Covid -19 ha reso trasparente il ruolo della riproduzione sociale a partire dalla consapevolezza che tutte e tutti abbiamo, indistintamente, bisogno cura. Quello che era privato diventa pubblico, ciò che era periferia diventa centro, quello che era dotato di un valore marginale diventa fondamentale. Questa trasformazione di prospettiva rappresenta un passo significativo per invertire i criteri classici della “civiltà del lavoro”, della nozione stessa di lavoro e di produttività, su cui da tempo insisto. Essa va intesa fuori da ogni tentazione essenzialista o destinica: “il care appartiene alle donne solo in quanto gli uomini se ne sono sbarazzati” (Pascale Molinier).

Resterà impresso nella memoria collettiva il fatto che dobbiamo sempre, reciprocamente, riconoscerci come corpi che necessitano cura? E a partire da ciò, riusciremo finalmente a riconcettualizzare la cura del vivente, come anima delle lotte del presente, che va ingaggiata da tutti i membri della società per sovvertire i progetti di presa sulla vita e di governo su di essa?

L’epidemia ha scoperchiato un enorme problema, specchio di una società che è stata costruita, immaginata solo per iscriverci flussi di capitale e per tradurre la vita in denaro. Abbiamo assistito al prosciugamento del welfare pubblico. La direzione seguita dalle politiche economiche di questi anni, per quanto riguarda il sistema sanitario ha privilegiato la necessità di tener conto di competitività, concorrenza, solvibilità. In questo senso si può effettivamente parlare del welfare come di un nuovo terreno della dinamica dello sfruttamento che si scarica sugli esseri viventi  e di un nuovo modello (settore) della produzione.

A questo punto, nell’intento di minimizzare i costi e di massimizzare il controllo sociale, i processi di responsabilizzazione del singolo attraverso il “distanziamento sociale” messi in atto dai sistemi politici come unica vera risposta al rischio consistente di una espansione incontrollata del contagio, ci espongono a ulteriori isolamenti e diseguaglianze.

Separati nelle case, rischiamo di non riuscire a riavviare un flusso affettivo, quella capacità di compassione che tiene insieme la potenza dell’intesa e la forza di resistere, in sintonia con altri. Non si può ignorare tale pericolo, reso macroscopico dalla paura e dalla povertà cui andremo incontro nel prossimo futuro. Tutto viene assorbito dalla virtualità di veloci relazioni a distanza fattesi determinanti per rompere la separazione ma che sono anche evidenti dispositivi di intensificazione del lavoro di produzione sociale e di generazione di miseria simbolica. Sempre rintracciabili, sempre on air, siamo a casa, smart worker di ultima generazione ma anche antiche casalinghe digitali, tra computer e lavatrici, ritrovandoci all’interno di un circuito produttore di negatività e di ulteriore senso di alienazione. Un disagio psicosociale da “tossicomania digitale”, per stare ad argomenti trattati con preveggenza da Bernard Stiegler, di cui oggi, probabilmente, sperimentiamo tutto il veleno, connesso al processi del “capitalismo pulsionale consumista e finanziario”, mentre rimuginiamo sulla nostra, probabilmente definitiva, proletarizzazione.

Che cosa deve indurci a pensare tutto questo? Che, come ho già scritto in tempi meno gravi, il nostro corpo sociale ci manca. E che questa assenza dolorosa è, ancora e nonostante tutto, una spinta assai potente. Che il femminismo ci ha già spiegato come il tema del soggetto sia centrale per una politica della vita e che di incrinature e ferite a cui è stata sottoposta la soggettività, piegata da questa esperienza inedita e terribile, andrà tenuto conto, per provare a riavviare i circuiti. A partire da qui, il tema del reddito assume un carattere politico dirimente. Il declino della società del lavoro salariato e la generalizzazione della remunerazione simbolica che, da sempre, è income della riproduzione sociale è già stato sottolineato, ma oggi dobbiamo arrivare davvero, in modo pragmatico, a chiedere l’estensione del “reddito di cittadinanza” verso l’incondizionalità e il libero accesso.  Esso è inteso, per esempio dalla petizione del BIN-Italia, come misura strutturale e non episodica, ma anche come “spazio bianco” che ci consente di provare a riscrivere gli schemi concettuali sempre impliciti nella condizione lavorativa.

Come movimenti femministi, manteniamo il significato del termine reddito di autodeterminazione. Riempiamo di contenuti l’ordine del discorso già implicito nel reddito di base, in quanto precisa difesa della libertà, della scelta, del desiderio, cioè esattamente del diritto di ciascuna/o all’autodeterminazione. Evocare un reddito di cura può sortire l’effetto di rinforzare la divisione dei ruoli, all’interno di una condizione che resta di dipendenza. Inoltre, un reddito inadeguato, direttamente collegato al lavoro di cura, può generare una sorta di svalorizzazione, sminuendo simbolicamente il valore sociale del compito: ecco allora che lo scambio monetario può diventare una trappola. Per rispondere alla crisi che verrà, vogliamo un reddito, fuori da tutte le specializzazioni. Per la libera persona.

 

Tratto da Il Manifesto

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