Nonostante ciò, e veniamo ora agli aspetti positivi, il servizio sanitario nazionale (che, come ricorda lo stesso Libro Bianco, è riconosciuto a livello internazionale come uno dei migliori del mondo) e l’istruzione primaria e secondaria, sono in grado di svolgere in modo efficiente e soddisfacente i compiti che la Costituzione assegna allo Stato in tali ambiti d’intervento.
All’interno di questo quadro, il Libro Bianco sembra andare nella direzione opposta. Oltre a presentare alcune vistose lacune nei dati (ad esempio, la spesa previdenziale italiana viene calcolata al lordo delle tasse e del TFR – di cui tutto si può dire tranne che sia spesa previdenziale[2]), ci si sofferma quasi esclusivamente su una linea di riforma: una accentuata e più drastica selezione degli interventi di welfare, con lo scopo di procedere ad una ulteriore privatizzazione dei servizi sociali tramite il ricorso al volontariato privato e al principio di sussidiarietà. Un progetto che è già implicito nel sottotitolo, che parla espressamente di “universalismo selettivo”, secondo una logica di work-fare.
I soggetti beneficiari degli interventi vagheggiati sono in primo luogo i singoli individui e le famiglie, quindi le comunità territoriali in nome del federalismo fiscale. Riguardo ai primi, è doveroso ricordare che, se nelle moderne concezioni della cittadinanza, occorre liberare dal bisogno gli individui affinché essi siano liberi di realizzare le “proprie” prospettive (libertà da e libertà di) di vita, nel Libro Bianco di Sacconi, più modestamente, si “promuove l’autosufficienza di ciascuna persona, di tutte le persone“. Riguardo la famiglia, viene ribadito il suo ruolo centrale come motore del welfare: “La famiglia è anche una cellula economica fondamentale. Centro di redistribuzione del reddito e delle rendite.” Il territorio diventa l’ambito in cui i servizi vengono erogati, dove tutti sono chiamati a partecipare alla crescita economica e sociale, dagli enti bilaterali, al mondo associativo, fino al singolo lavoratore. Di fatto, la tendenza alla privatizzazione del welfare si realizza tramite il ricorso a soggetti privati, che vengono “pubblicamente riconosciuti”.
Sul piano dell’intervento a sostegno diretto del reddito si ribadiscono i postulati del work-fare. Pur essendoci un paragrafo dal titolo La lotta alle povertà e il reddito di ultima istanza, vi si legge che “La prima risposta al bisogno è il lavoro e quindi il contrasto e la prevenzione della povertà avvengono in primo luogo con la promozione di una società attiva e di un mercato del lavoro inclusivo”. L’Italia sembrerebbe, con ciò, continuare a non voler predisporre alcuna misura universalistica di reddito minimo di ultima istanza. Infatti, pur registrando l’esistenza di una “area di povertà assoluta che vive al di sotto del minimo vitale e che quindi sollecita interventi tempestivi e diretti per rimuoverli” i soggetti di fatto indicati come possibili fruitori di misure ad hoc di sostegno al reddito sono “anziani soli, o con un coniuge non autosufficiente, le famiglie con un solo genitore e con figli minori a carico, quelle con portatori di inabilità o di disagio psichico“; solo per questi e laddove non esistano altre soluzioni “secondo soglie rigorose e modulate per territori e composizione dei nuclei familiari, collegate con percorsi di uscita dall’area di disagio” la Repubblica finalmente si muoverebbe a pietà. Il riferimento successivo alla sperimentazione già fatta con la “carta acquisti” fa ulteriormente dubitare che si proceda lungo una linea di lotta all’esclusione sociale di segno europeo. In ogni caso si escludono proprio i soggetti che negli altri paesi sono tipicamente i fruitori di un “reddito minimo” e cioè i giovani in cerca di occupazione e i disoccupati di lungo periodo a meno che lo stress ricevuto non li faccia rientrare in una di quelle categorie prima ricordate[3].
Riguardo agli ammortizzatori sociali, in mancanza di delucidazioni più precise circa le concrete proposte in campo, sembra registrarsi una cauta apertura verso una generalizzazione delle protezioni sino ad oggi riservate ad una fascia largamente minoritaria della forza lavoro. Tuttavia questa apertura a ben guardare è molto ambivalente e desta più di una preoccupazione. Si fanno due premesse sulle caratteristiche del sistema tradizionale. La prima è che sin qui si sono previsti come criteri di accesso “congrui periodi lavorativi pregressi“: tale condizione verrebbe conservata il che di per sé restringe lo spettro dei destinatari. La seconda condizione, che invece si giudica come ineffettiva sino ad oggi, “impone la cessazione del sostegno al reddito nel caso di rifiuto di una offerta congrua rispetto alla precedente occupazione e remunerazione o di un percorso di riqualificazione“. Qui il Libro bianco si fa propositivo “e il criterio di congruità potrebbe essere ampliato con la garanzia di una integrazione del reddito sino al precedente livello“. Insomma il sussidio, oltre a presupporre pregressi periodi di lavoro, si perderebbe in caso di mancata accettazione di offerte di lavoro non “congrue”, al di sotto dei minimi contrattuali e precarie, che verrebbero integrate con risorse pubbliche, quindi in caso di offerte di lavoro dequalificanti e mortificanti le esperienze professionali del soggetto (e le sue aspirazioni individuali). Giova ricordare che l’art. 2103 del codice civile (e con esso anche l’art. 13 dello Statuto dei lavoratori) considera illegittima ogni dequalificazione del lavoratore e quindi la assume come un fatto produttivo di danni risarcibili, con l’unica eccezione, secondo una certa giurisprudenza, di una offerta di lavoro non coerente con il bagaglio professionale ma inevitabile per scongiurare il licenziamento, sempre che sia accettata dal dipendente.
Ci sembra che questa soluzione di work fare estremo, prospettata dal Libro bianco, sia l’opposto di quanto i documenti europei sulla cosiddetta Lisbon Agenda prescrivono da quasi un decennio, laddove da sempre si insiste sul lavoro come mezzo per realizzare le proprie capabilities.
Inoltre non può lasciare indifferenti la prevista biforcazione del settore: “La protezione del reddito potrebbe a regime essere organizzata su due pilastri. L’uno pubblico, esteso a tutti i lavori subordinati, decrescente nel tempo e modellato sulla attuale indennità di disoccupazione. Ne sarebbe una specie anche l’introduzione di una indennità di reinserimento una tantum per tutti i lavoratori indipendenti che si trovano in uno stato di dipendenza socio-economica da un solo committente…. L’altro privato, e fiscalmente incentivato, che dovrebbe svilupparsi attraverso la diffusione degli organismi bilaterali promossi dalle parti sociali anche grazie alla completa remissione ad essi della gestione dei fondi alimentati da contribuzioni obbligatorie dei lavoratori e degli imprenditori e oggi dedicati alla cassa integrazione”. Si allude ad una ridislocazione di risorse verso il settore non pubblico ed in favore di forme para-mutualistiche legate alla contrattazione bilaterale. Molte domande rimangono inevase su questo cruciale passaggio (anticipato dal decreto legge n. 185/2008, per singole figure di lavoratori, ma qui dipinto come una scelta strategica d’insieme). E’ compatibile questa soluzione, che assegna centralità all’opera di mediazione di soggetti di natura privata, con l’art. 38 della Costituzione che comunque fa dell’indennità di disoccupazione involontaria un diritto “dei lavoratori” costituzionalmente protetto? Si realizzeranno forme di discriminazione per soggetti che hanno contratti in settori privi di una contrattazione con gli enti bilaterali? Può la contrattazione collettiva essere portatrice di interessi anche in materia di tutele essenziali di natura sociale, in difetto di una legge sulla rappresentanza e rappresentatività sindacale? Questo investimento negli enti bilaterali implica l’abbandono definitivo delle forme di controllo pubblico (anche di natura procedurale) in materie come la cassa integrazione, la messa in mobilità etc.? Saranno aboliti questi istituti? I sussidi per i lavoratori autonomi saranno dell’entità attuale, e cioè pari al 20% della retribuzione nell’ultimo anno? Il sostegno (pilastro) pubblico su che livello si attesterà? In un testo di circa 70 pagine non si offrono risposte neppure indicative, né si richiamano modelli o esperienze, anche straniere di riferimento; il Libro Bianco dovrebbe orientare le scelte legislative nell’arco dell’intero mandato, ma sembra difficile per coloro che con sempre maggiore violenza vengono colpiti dalla crisi tirare un respiro di sollievo. L’incertezza regna sovrana.
Il documento ministeriale continua, comunque, ostinatamente ad ignorare (salvo il capitolo sull’occupazione femminile) tutte le indicazioni di fonte europea sulla lotta all’esclusione sociale e in particolare la raccomandazione della Commissione europea del settembre 2008 rivolta esplicitamente a quei paesi, come l’Italia, che non contemplano forme di tutela dei “bisogni vitali”; ignorate risultano pure le Carte dei diritti sopranazionali (la Carta di Nizza, la Carta sociale europea, la Carta dei lavoratori comunitari del 1989) per le quali lo ius existentiae è un diritto sociale fondamentale. Infine il Documento ignora persino i “principi comuni in materia di flexicurity” adottati a fine dicembre 2007 dal Consiglio europeo e già incardinati nella strategia europea sull’occupazione, come se non vi fosse in questa materia (sottoposta a regime di coordinamento aperto) l’obbligo per gli Stati di tenere in debita considerazione gli obiettivi e gli orientamenti degli organi sovranazionali (mai richiamati in concreto). Per giunta il Libro Bianco (ancor più chiaramente del precedente Libro Verde) sembra prospettare una inaccettabile logica di scambio tra tutele “nel mercato” cui vagamente si allude e diritti “nel contratto”, a cominciare dall’art. 18 dello Statuto del 1970, cercando di dividere sul punto del riconoscimento di elementari diritti sociali di cittadinanza (già ampiamente garantiti da tutti i principali partner europei), tra garantiti e non garantiti. Si deve invece ricordare che, neppure sul piano della tutela dal licenziamento ingiustificato, il nostro paese è in regola: per alcuni (circa un quinto della forza-lavoro) vige l’efficace rimedio della reintegrazione nel posto di lavoro, ma per la stragrande maggioranza dei lavoratori valgono solo risarcimenti sostanzialmente di tipo simbolico e in certi casi (lavoro “co.co.pro.” o a partita IVA) neppure quelli. Elementari ragioni di equità dovrebbero indurre a prevedere forme di tutela di questo fondamentale diritto più incisive di quelle attuali per coloro che sono fuori dalla cittadella del lavoro standard in imprese sopra i 15 dipendenti, posto che l’art. 30 del Bill of rights europeo definisce la tutela contro il licenziamento ingiustificato come un fundamental right che, quanto al suo contenuto essenziale, va salvaguardato per tutti i lavoratori, qualunque sia la tipologia contrattuale. Si tenta, poi, una sorta di riscrittura improvvisata dell’art. 36 della Costituzione affermando che “sussiste il diritto ad un compenso equo non solo in quanto idoneo a garantire una esistenza libera e dignitosa, ma anche perché proporzionato ai risultati dell’impresa”.
L’associazione Bin Italia valuta criticamente il Libro Bianco e si rammarica che le proposte di riforma dell’attuale esecutivo si muovano nella direzione opposta rispetto a quella da noi auspicata (anche nel documento presentato nel forum di discussione aperto dal precedente Libro Verde); una direzione in aperto contrasto con l’art. 3 della Costituzione italiana che assegna alla Repubblica il compito di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che limitano la libertà e l’eguaglianza dei cittadini e in rotta di collisione con le esperienze più avanzate di welfare a livello continentale (i paesi del Nord europa) che l’Unione considera da tempo come le migliori pratiche nel settore della lotta all’esclusione sociale.
Bin Italia 17 giugno 2009
[1] Stefano Toso, “Pagine bianche nel libro bianco”, 19.5.2009, in www.lavoce.info
[2] Se si armonizzasse la spesa previdenziale italiana a quella europea, separando previdenza da assistenza, si osserverebbe che i pensionati finanziano lo Stato da un lato, e che i poveri sostengono le pensioni dei ricchi. Inoltre, si contrappone la spesa previdenziale a quella sanitaria, quasi che ci fosse un conflitto.
[3] Sul “Sole 24 ore” del Maggio scorso Cristiano Gori annotava “mancano indicazioni concrete riguardanti ciò che si intende compiere per poveri, sanità ed anziani non autosufficienti, mentre si riflette ad un certo livello di astrazione sulla centralità della famiglia, ruolo della comunità, rapporto tra diritti e doveri e così via” ed ancora che da parte del Governo nel presente “per la lotta alla povertà si punta sulla social card”.
Non ci sono links correlati