Abbiamo bisogno di protezione. Abbiamo un sano bisogno di protezione. Fuori piove, parecchio, e abbiamo proprio bisogno di un ombrello che ci protegga. Il mare è alto e non tocchiamo, o rischiamo di andare nel panico anche se sappiamo nuotare benissimo: c’è bisogno di un salvagente che ci protegga. Camminiamo spesso su un filo, come degli equilibristi, e ci serve una rete di protezione, se magari cadiamo. E protezione, oltretutto, è anche una bella parola, specialmente se vicino ci mettiamo sociale.
Il welfare state è stato una conquista lottata, sudata, guadagnata con manifestazioni, scioperi, rivolte e anche morti. Certo, lo stato sociale non sarebbe potuto nascere se chi era al potere non avesse capito che concedere più garanzie era l’unico modo per tenere a bada le masse, per mantenere l’ordine. E c’è chi dice che questa specie di patto abbia tranciato le ali ad aspirazioni ancor più radicali. Ma il welfare ha indubbiamente permesso a milioni di individui, almeno nel mondo occidentale, di risollevarsi dalla miseria e uscire dalla povertà, o perlomeno di contenerne gli effetti. Il meccanismo è semplice, e la metafora dell’ombrello calza: fuori piove, apriamo l’ombrello e proteggiamoci. Più largo è, meno ci bagniamo.
E oggi piove parecchio, dicevamo, e serve più che mai la protezione sociale. Occorre tornare indietro con i principi per andare avanti con le politiche, recuperando alcune parole d’ordine che non sono vecchie, ma soltanto classiche: assistenza, solidarietà, diritti, universalismo. E quindi eguaglianza, giustizia, emancipazione. Mettiamo nel cassetto altre parole d’ordine, brutte, o che si sono prestate a brutti usi, anche loro malgrado: responsabilizzazione individuale, empowerment, autonomia (a tutti i costi), flessibilità, estremizzazione dell’homo faber, essere artefici del proprio destino e via seguendo. Queste parole-concetti sono state come delle spezie, anzi degli aromi poco naturali, utili a condire il piatto freddo e amaro dell’individualismo come metodo di vita, di relazione, di economia, della favola dell’essere “imprenditori di se stessi”. Imprenditori di se stessi: uno dei peggiori slogan creati negli ultimi decenni, che, da sogno di tutti, è diventato incubo personale. Perché significa questo: risposte individuali a problemi collettivi. Brutalmente: se perdi il lavoro, è colpa tua; non sei riuscito a mantenere il posto, a far andare meglio l’azienda, a garantire quel lavoro entro quel certo tempo, ad andare d’accordo con il capo, ad essere flessibile nel modo corretto, a dare il giusto peso al lavoro rispetto alla famiglia. E se non riesci a trovarlo, il lavoro, è perché non hai le competenze giuste, non ti dai da fare, non servi a nessuno, probabilmente vali anche poco. Hai sbagliato, hai fallito. Non sei innocente: potevi fare sicuramente meglio e di più.
Oggi, il welfare, così com’è strutturato e organizzato, è pieno di pecche, di perversi meccanismi assistenzialistici (nel senso più deteriore), di clientelismo e anche corruzione, di scarsa efficienza e di sprechi: quanto volte abbiamo parlato male dello stato sociale, specialmente in Italia! Tutto vero, analizzato e studiato a profusione. Se si vuole sostenere un recupero del welfare, non basta mettere le toppe su un vestito che non ci va più bene ed è pieno di buchi e strappi. Occorre rilanciare, cambiando passo e muovendosi come farebbe il cavallo negli scacchi: in avanti e lateralmente, nello stesso tempo. Due caselle oltre e una in orizzontale.
E qui veniamo al reddito per tutti o Reddito di Base Incondizionato (RBI), cioè a un’idea che possiamo far risalire addirittura al pensiero di Tommaso Moro o Thomas Paine. Attualmente, la proposta più nota e più compiuta di RBI è quella di Philippe Van Parijs, che ha dedicato buona parte delle sue fatiche proprio a questo tema ed è tra i fondatori e animatori del BIEN, il Basic Income Earth Network, cioè la rete mondiale nata per studiare e promuovere proprio il reddito per tutti (c’è anche un’attivissima sezione italiana, il BIN-Italia). Secondo questo brillante studioso belga, il RBI è “un reddito versato da una comunità politica a tutti i suoi membri, su base individuale, senza controllo delle risorse né esigenza di contropartite” [1]. Qualcosa di veramente molto radicale, se non rivoluzionario. In tutti i paesi europei sono previste misure di lotta alla povertà che, per semplicità, chiameremo di Reddito Minimo Garantito (RMG). Ma sono riservate solo ai poveri e/o ai disoccupati, presuppongono un controllo delle risorse economiche dei potenziali beneficiari (il means test, cioè la prova dei mezzi), tengono conto della loro situazione familiare e sono condizionate dall’impegno, più o meno stringente, a partecipare ad un progetto di inserimento sociale, quasi sempre di tipo lavorativo. Per continuare a ricevere il sussidio economico, chi lo ottiene deve dimostrare di cercare lavoro attivamente e non rifiutare proposte di impiego (entro un certo limite, a seconda delle legislazioni dei vari Stati). Sono, quindi, misure selettive e condizionate. Invece, il RBI è universale e incondizionato: è attribuito a tutti, ricchi e poveri (quindi senza controllo delle risorse economiche), su base individuale (e non familiare), senza esigenza di contropartita alcuna e senza verifiche sull’utilizzo delle somme percepite. E poi è cumulabile con altri redditi.
Sembra, a primo sguardo, una proposta da Paese di Bengodi, la “località immaginaria della fantasia popolare”, come scrivono i dizionari, dove “regnano l’allegria e l’abbondanza, in cui nessuno ha problemi o preoccupazioni economiche, e tutti possono mangiare e bere a volontà”. Con il RBI, tutti ricevono una somma fissa di denaro senza fare nulla, per sempre e che possono cumulare ad altre entrate. Non si tratta, però, di una misura fantasiosa; anzi, a detta dei suoi sostenitori, è una proposta concreta e realistica, oltre che giusta ed utile. Considerate le caratteristiche di radicale universalità e automaticità, infatti, il reddito per tutti garantisce un tasso di copertura praticamente del 100%, perché tutti i soggetti bisognosi ne possono beneficiare. Il RMG, invece (quello destinato solo ai poveri e solo se questi fanno qualcosa in cambio), ha tassi di copertura non sempre all’altezza delle aspettative, per varie ragioni e perché non tutti i poveri possono accedervi. E poi, il RBI annulla lo stigma, la vergogna, l’andare con il cappello in mano ai servizi sociali, perché non è indirizzato ad una parte sfortunata della società, ma a tutti, indistintamente.
Il reddito per tutti, quindi, garantisce universalmente una rete di protezione per non sprofondare. Certo, dipende da quanto è corposo; ma il non morire di fame, innanzitutto, il non sentirsi completamente scoperti se si viene licenziati o si salta qualche mese tra un contratto e l’altro o si apre un’attività che poi non decolla o si è giovani e non si riesce a trovare lavoro; ma anche prendere il part-time per stare con i figli, decidere per un anno sabbatico quando non si hanno i soldi sufficienti per mantenerselo, andare in pensione qualche anno prima di averne così tanti da non potersela più godere, sono tutti motivi ed eventi più che sufficienti per giustificare un RBI sostanzioso: politicamente, economicamente (si può fare, se si vuole), ma soprattutto eticamente.
Il reddito per tutti come la mossa del cavallo, dicevamo: in avanti e laterale. In avanti, perché oggi il welfare è in crisi, non solo perché spesso inefficiente (non utilizza al meglio i mezzi per i fini che si prefigge) e inefficace (non raggiunge i fini che si prefigge), ma anche perché iniquo (garantisce a macchia di leopardo, chi troppo, chi niente, specialmente in Italia) e quindi carente, terribilmente carente: non basta, non protegge a sufficienza, lascia troppe persone scoperte e in balìa degli eventi. La mossa in avanti è proprio una sua espansione (in netta controtendenza rispetto agli austeri tagli di oggi), in termini veramente universali. Laterale, perché il RBI, così com’è pensato, non richiede nessuna contropartita, nessuna rendicontazione delle somme percepite, nessun obbligo a partecipare a programmi più o meno felici di inserimento sociale o lavorativo. È incondizionato, appunto: basta un cuore che batte, com’è stato detto. Sembra veramente partorito dai fautori del pensiero laterale, di chi cerca soluzioni diverse da quelle che ormai rischiano di essere datate e poco adeguate.
Certo, sebbene sia una misura teoricamente molto facile da applicare, non lo è nella pratica: quanti sono veramente d’accordo a dare a tutti un reddito, indipendentemente dal lavoro? Come facciamo ad aggregare consenso su una misura così radicale? Che succede, appunto, al lavoro? Tutti se ne starebbero in panciolle? E se diamo un reddito a tutti, non rischiamo di non mettere più in discussione quei meccanismi economici e sociali che producono ingiustizia e povertà? E quanto reddito bisogna garantire? Che ne facciamo dello stato sociale hard, quello fatto di servizi essenziali come gli asili, le residenze per gli anziani, i centri di aggregazione e via dicendo? Quanto costa e, soprattutto, dove troviamo i soldi?
Tutte domande legittime, a cui, come vedremo, non è facile dare una risposta. Anticipiamo una parte delle conclusioni: non è detto che occorrerebbe partire con una misura radicale e perfettamente coincidente con quella elaborata dai suoi sostenitori più accesi; si può cominciare con proposte più circoscritte e limitate, sempre però nell’ottica di garantire, davvero, tutti. Si può cioè intanto procedere, utilizzando l’utopia (sì, l’utopia), come diceva Eduardo Galeano, non tanto per metterla in pratica da subito, ma per capire in quale direzione camminare.
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Indice del libro
Prefazione – di Ambrogio Santambrogio
Introduzione – Perché il reddito per tutti o qualcosa che gli somigli
Capitolo 1. Proposte, esperienze e tentativi
1.1 Giustizia più libertà: il reddito per tutti nell’idea di Van Parijs
1.2 Lo strumento tradizionale di lotta alla povertà: il Reddito Minimo Garantito
1.3 Dove è stato sperimentato il reddito per tutti?
1.4 Dove si discute (seriamente) oggi di reddito per tutti?
Capitolo 2. Come ci siamo ridotti: la povertà oggi
2.1 Chi sono i poveri in Italia
2.2 Povertà e crisi: com’è potuto accadere?
2.3 “È colpa tua”: retoriche della responsabilità individuale
Capitolo 3. Reddito per tutti e welfare state
3.1 Indicazioni dal passato (prossimo)
3.2 Il RBI nel welfare state
3.3 A tutti: perché no a misure selettive
3.4 Tagliare con l’accetta: dare un sostegno a tutti
Capitolo 4. Reddito o lavoro per tutti?
4.1 Lavoro, non reddito
4.2 Il lavoro, oggi
4.3 Disoccupazione e robotizzazione
4.4 Precarizzazione
4.5 Lavoro povero
4.6 Lavoro, identità, integrazione
Capitolo 5. Gli effetti sul lavoro del reddito per tutti
5.1 Gli effetti positivi
5.2 Gli effetti negativi
5.3 Capitalismo (vecchio e nuovo) e reddito per tutti
Capitolo 6. Come fare?
6.1 La questione dei costi
6.2 La questione del consenso
6.3 Piccoli o grandi passi?
Conclusioni – In difesa del welfare state